Niente paura ragazzi, ha solo pianto un po’! ….

Quando da ragazzino giocavo a palline nello spazioso cortile della macelleria del mio paese, con una manciata di ragazzini della mia età, eravamo circondati da una moltitudine di belle piante fiorite. Margherite multicolori, ciclamini giganti, camelie, azalee, gerani, gigli, violette, rose e oleandri che la gentile padrona di casa aveva disposto in modo magnifico ed impeccabile. Ma di fronte a quel piccolo paradiso di profumo e di colori si stagliava lo stanzone maledetto del macello, per cui il profumo delle rose e delle altre varietà floreali nulla poteva contro l’acre e insopprimibile puzzo di morte che proveniva da quel sinistro pavimento grigio, dove il cemento si era abituato ormai da anni al sangue, imbevendosi di materia organica e di sofferenza animale. Poco distante c’era la stalla. Quando arrivavano i bovini col camion, venivano fatti scendere e trascinati uno ad uno in quella che era una vera e propria anticamera della morte. Quel pomeriggio di settembre era una bella giornata di sole, e noi ragazzi avevamo disposto a terra la riga di maiùs (palline o bigliette colorate di vetro). Eravamo in otto ragazzi, anzi in nove. Un bel vitellino era infatti uscito da quella stalla, aveva carambolato in ogni angolo del cortile, guardando e annusando con attenzione ogni cosa, stando attentamente alla larga dal macello, e poi alla fine aveva scelto la parte opposta al medesimo, dove stavamo coi nostri giochini. Aveva capito che di noi, nonostante il chiasso che facevamo, si poteva fidare. Dopotutto eravamo ragazzini delle elementari al pari di lui. Dopo qualche esitazione e qualche timida avance, tipo toccata e fuga, l’approccio reciproco era riuscito. Nel giro di due orette eravamo un’unica famiglia, noi ragazzi e il compagno di giochi a quattro gambe. Al punto che, quando lo salutammo al termine della sessione-giochi, ci fu una punta di rammarico sia in noi che in quella bestiola, costretta a passare la lunga notte in quel luogo poco raccomandabile tutta sola, priva di mamma e papà, o della compagnia di altri vitellini. Ognuno di noi lo avrebbe voluto portare a casa sua, per dargli cento carezze, per rifocillarlo, per farlo giocare col suo cane o col suo gatto. Il giorno dopo tornammo sul posto per una riedizione del gioco. Come aprimmo il portone di accesso al vasto cortile, ci vide in lontananza e si comportò al pari di un cagnolino affezionato. Fece un paio di corse per scaricare la sua tensione emotiva e poi, trotterellando ci venne incontro, ricambiando la nostra carezza con altrettante leccate umide e ruvide alle nostre mani. Mentre giocavamo con le palline a terra, si era accovacciato a poca distanza da esse, ed osservava attentamente i nostri gesti. La scena andò avanti per tutta la settimana. Evidentemente, la richiesta di fettina di vitello non era tale da innescare procedimenti d’urgenza. Si era arrivati al sabato pomeriggio ed ormai ci eravamo abituati alla presenza del nostro inconsueto ed ammiccante spettatore. Stavamo discutendo sulla modalità di piazzamento dei maiùs quando, d’improvviso e senza proferire parola, si portò su di noi il figuro delle esecuzioni capitali, con tanto di grembiulone e guantoni, sorprendendoci tutti ed interrompendo il lancio delle palline. Bloccò a terra con mossa fulminea da rugby l’innocente creatura semi addormentata, e sotto i nostri occhi increduli e sbalorditi da tanta rudezza, si portò l’animale sulle spalle fino all’ingresso del macello. Sul muro esterno in basso c’era un grosso gancio. Gli legò con due veloci giri di corda la testa, assicurandola a quel gancio, prese lì accanto una mazza doppio uso, con martellone da una parte e punteruolo dall’altra. Sollevò l’arnese lentamente e lo fece piombare con millimetrica precisione sul cranio del nostro amichetto, frantumandogli la testa ed interrompendo i suoi lancinanti lamenti, mentre il bianco manto del nostro compagno di giochi si tingeva orrendamente di rosso. La raggelante scena durò non più di tre minuti. L’omaccio slegò la testa maciullata del piccolo quadrupede, posò la sua arma e, soddisfatto del suo lavoro completato a regola d’arte, rivolse lo sguardo verso di noi: “Nie pore mularìe, al à vaìt dòme un tic! Se fòssen duc cossé bòins, o metarès subèt le fìrme. (Niente paura, ragazzi, ha pianto solo un po’! Se fossero tutti così remissivi, ci metterei subito la firma).” Personalmente stetti male per almeno una settimana, ma rimasi segnato per la vita. Quella scena fulminea ed improvvisa stava fotografata dentro di me e non mi lasciava. Mi sentivo anche vigliacco, perché non avevo mosso un dito per impedire che quel piccolo essere indifeso venisse brutalizzato in quel modo. Sentivo persino la sua anima accusarmi e chiedermi il perché della mia collusione col macellaio. Due giorni dopo, a pranzo, dopo il solito minestrone di verdure, mia madre mi presentò un piatto di carne. Dissi che non mi andava. “Cosa? Tuo padre va tutti i giorni al lavoro e con quei soldi ho comprato per te il pezzo migliore, quello più tenero e fresco di un vitello da latte, e tu dimostri di non apprezzarlo?” Feci finta di portarlo alla bocca e, mentre lei usciva dalla zona cucina, lanciai le mie due porzioni al gatto che stava sotto il tavolo. Mia madre se ne accorse, e mi arrivò pure una piccola sberla, l’unica presa in vita mia. Ma, da quel giorno, niente più carne e niente più schiaffi, visto che era una persona dolce e magnifica, anche se non ancora vegetariana. Tutti noi restammo scioccati, ma la mia reazione personale fu più profonda rispetto ai miei compagni di allora. Essi continuarono dopotutto a mangiare carne senza troppi pensieri, in linea perfetta con la totalità delle persone che conoscevano. Io andai invece controcorrente, non solo in famiglia, ma anche a scuola e in società, non preoccupandomi mai di allinearmi con la maggioranza. La convinzione intima di essere nel giusto mi rendeva inattaccabile a qualsiasi opera di costrizione. Tutti pronti a saltarmi addosso e a dirmi di mangiare la carne, altrimenti mi sarei deperito e avrei avuto la vita corta.

Ero certo che si sbagliavano tutti e di grosso. Ma, anche se avessero avuto ragione, e se davvero la carne fosse davvero stata una panacea indispensabile, non l’avrei comunque accettata.

Il rispetto e l’amore per l’animale non sono affatto un optional, un tocco marginale in più. Più volte ho polemizzato con chi continua a differenziare impropriamente l’aspetto salute dall’aspetto etico. Etica e salutismo marciano sempre mano nella mano. Il crudismo vegano almeno tendenziale, con tutta l’etica animalistica che si porta appresso, è per tutti un punto obbligato ed inevitabile.

Valdo Vaccaro

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