Spiritualità e conformismo …

Radha e Krishna

di D. Di Bella

Vedo nell’essere umano una creatura “essenzialmente” spirituale.
Anche in una società materialista come questa. Dalla notte dei tempi l’uomo affida ad apposite “istituzioni”, l’esclusivo titolo di “intermediari” tra l’uomo e il sacro. Sarebbe interessante poter sapere com’è nata questa tradizione. Fatto sta che vari percorsi spirituali vengono preconfezionati e imposti ai fedeli delle varie religioni.
Gli spiriti più inquieti e acuti, quando ne hanno le scatole piene di seguire prescrizioni e azioni rituali sempre identiche, contraddizioni e incoerenze, riescono ad affrancarsi dal giochino del “premio eterno” e cominciano un viaggio travagliato alla ricerca di un significato spirituale più umano e personale. Vagano spesso tra le zone d’ombra delle varie religioni, mossi da una sempre più precisa consapevolezza della propria natura spirituale. Le varie dottrine da principio incantano, certo, ma presto mostrano il rovescio dogmatico e spersonalizzante della medaglia; e per i ricercatori veri è tempo di rimettersi in viaggio.
Una sorte completamente diversa viene abbracciata ogni giorno dal vasto pubblico. Per chi teme incertezze e precarietà basta non farsi troppe domande e seguire le prescrizioni degli esperti, sempre pronti a indottrinare su cosa sia spirituale e cosa no.
Un pubblico non meno vasto reagisce invece d’impeto, negando l’esistenza di Dio. Spesso gli atei sono persone molto intelligenti, che non hanno trovato uno spiraglio di verità nel soffocante clima religioso in cui erano immerse. Ma negare l’esistenza di un Dio tratteggiato in maniera grottesca, o rifiutarsi di obbedire a organizzazioni di “disperazione di massa”, non equivale per niente a negare ogni “spiritualità”. 
Purtroppo, abbiamo quotidianamente poco tempo per riflettere sul tema. Forse il trucco che da secoli, millenni, ci persuade a delegare un compito tanto importante, consiste proprio nel lasciarci poco tempo per  noi e per gli altri. Tutti gli altri. Chissà cosa accadrebbe se potessimo scambiarci opinioni e cercare assieme una verità, senza dover controllare l’ora.

Devo ammettere che osservando le dispute tra i vari presunti “figli legittimi di Dio”, la mia convinzione sulla spiritualità dell’uomo spesso vacilla. Più che triste, la mia natura m’impone allora di accendermi di rabbia e indignazione. E’ incredibile! Per costoro affermare un unico Dio significa unicamente imporre la propria visione agli altri! E’ inevitabile; sono secoli che sgomitano, l’uno contro l’altro, in mezzo alle sabbie mobili. E non sono io il primo a dire che le religioni hanno sempre disseminato la terra di morti. E’ la storia che lo dice; anche quella contemporanea.

Che cosa significa, qui e ora, essere creature spirituali? Possiamo provare a rispondere a questa domanda, senza ricorrere alle parole di questo o quest’altro libro, di questo o quest’altro “profeta”?
Difficile rispondere, data la frammentazione propagata dalle istituzioni religiose e dai loro schemi preconfezionati di rapportarsi al “sacro”. Abbiamo approcci dogmatici alla spiritualità; e abbiamo gente che parla di “oppio dei popoli”. Abbiamo disillusi che evadono il problema cercando una realizzazione lontano dallo spirito; e gente che sembra non porsi il problema. Poi ci sono i ricercatori; i guerrieri, li chiamo io. Perdonate il termine ambiguo e abusato, ma bisogna proprio essere guerrieri, in questo mondo, per non perdere la speranza in una fede “divinamente umana”!
Per me le varie religioni, oggi, possono ancora esplicare una funzione costruttiva; ovvero quella di “portali”. Per recuperare un senso del sacro bisogna seguire dapprima linee guida, per poi proseguire, lungo un sentiero di spiritualità, fino al loro superamento; fino al superamento della frammentazione.
Grandi santi hanno abitato ogni istituzione religiosa. Ma erano santi perché appartenevano a quella ben specifica dottrina, oppure perché erano la piena espressione di una spiritualità che trascendeva ogni frammentazione e credo? Non saranno stati santi, forse, solo perché divinamente umani? Dobbiamo indagare e continuare a indagare, tutti insieme. Soprattutto, vi prego tutti insieme. Senza comunicazione non c’è verità.
Bisogna mettere in dubbio, scremare, togliere via tutte le assurdità. Credete davvero che un Dio ci abbia creati curiosi e ribelli solo per farcene vergognare? Sarò anche un pò sognatore… ma credo che sia stato proprio Dio il primo ribelle della storia. Credo, infatti, sapesse benissimo a cosa andava incontro creando una creatura come l’uomo. Se lo sapeva bene e ci ha creato ugualmente, vuol dire che non si è dato retta, non si è ascoltato, si è ribellato al proprio buon senso. O magari era troppo curioso per tirarsi indietro. Non credo per niente, quindi, che gli siano sgraditi ribelli e curiosi; anche se ci hanno abituati a vederla diversamente.
Torniamo alla domanda: cosa significa spiritualità? Possiamo sfiorare la questione, qui e ora, senza ricorrere a soluzioni preconfezionate, limitandoci unicamente a lasciarci ispirare? Mi viene, ad esempio, in mente, un aspetto rilevante di tutta la questione: il significato della morte.  Ho come l’impressione che l’argomento stia diventando un tabù, nel mondo che mi circonda. Un segno in più che le soluzioni preconfezionate non quietano l’animo dei sudditi. A un primo sguardo appare sensato trascurare la morte. Ma siamo poi sicuri di non poter ricavare alcun significato degno di nota per le nostre vite, dalla morte?
Le religioni, in realtà, non trattano la morte con l’attenzione che, a mio avviso, meriterebbe. Appena spunta la morte l’attenzione è prontamente spostata dal significato dell’evento in questione a una dimensione ulteriore, “ultraterrena”, di significato, vita eterna, cicli di reincarnazioni, e roba del genere. Attenzione. Non sto affermando né negando l’esistenza di qualcosa oltre la vita. Vorrei piuttosto capire se la morte possa, di per sé, donarci un significato creativo per la nostra vita, per il terreno delle nostre libere scelte. E vorrei, in caso di risposta affermativa, capire perché l’argomento è oggi evitato come la peste.
Andiamo perciò incontro al tabù. Parliamo semplicemente un pò di morte, senza esagerare e senza deprimere. Cerchiamo di non fuggire, e di preservare quella giusta misura che in ogni campo è sintomo di saggezza. A mio avviso la morte scompare sempre più dalla nostra vista di animali pubblici. Manifesti pubblicitari e programmi televisivi allontanano il pensiero di dolore e morte, incalzandoci con sorrisi rimaneggiati dai chirurghi e parrucchini assurti a simbolo di affidabilità.
«Ecco che ci risiamo!» penserà qualcuno ora. «Un’altra critica al “responsabile” operato dei mezzi di comunicazione di massa!». Ebbene sì, lo confesso! Pur non volendo per nulla generalizzare, credo che un ramo piuttosto maggioritario della informazione “conformista” sia responsabile di molte, molte cose, che non tornano più a questo mondo. Intendiamoci, sicuramente c’entrano anche contraddizioni e incoerenze religiose; quelle c’entrano sempre, nell’educazione dei popoli. Per altro, perdonate la parentesi, non ho mai compreso come mai molti tra i più mesti e spaventati di fronte alla morte siano proprio gli straconvinti sostenitori di una certa idea di vita eterna, particolarmente diffusa dalle mie parti. Non dico che abbiano torto o ragione a crederci. Ma confesso che l’idea di passare l’eternità in un medesimo posto, con la medesima identità personale, e a cantare lodi dalla mattina alla sera, per giunta, un pò me la fa temere, la morte. Se fossi del loro avviso, perlomeno, vorrei un funerale festeggiato con musica e balli, e il divieto d’ingresso ai musi lunghi e depressi. Così, tanto per dimostrare un minimo di coerenza. Mi vengono in mente gli antichi abitanti del cosiddetto “Nuovo Mondo”; la loro profonda e coerente spiritualità, il loro meraviglioso modo di vivere la sacralità del creato. Forse, possiamo lasciarci ispirare da esempi migliori di spiritualità; esempi molto più coerenti di quelli che ci circondano quotidianamente, non trovate?
Ma torniamo al problema delle responsabilità in tema di evasione dalla morte. Vi sono, dicevo, ovunque forme di spiritualità organizzate che sfociano in dogmatiche dell’ignoranza; istituzioni che da millenni trasformano “strumenti di elevazione spirituale” in “strumenti di controllo delle masse”. Sono certo che la loro responsabilità è enorme anche per quanto riguarda l’autentico senso che la morte riveste per l’uomo.
Credo però che di altrettante responsabilità debba rispondere una certa cultura di massa, da sempre intenta a tralasciare tutto quanto, nell’uomo, non sia in qualche modo monetizzabile. Detto così può anche apparire azzardato, ma credo che chi “vive per vendere” ci guadagni, e anche molto, a convincere la gente di essere immortale. E’ l’inconscio naturalmente a recepire il messaggio. E dall’inconscio tale messaggio condiziona le nostre scelte consapevoli. Chi ci propina surrogati di vita autentica, chi ci convince che la felicità abbia un valore economico e possa essere acquistata, e riacquistata, e riacquistata ancora, allontana dalla nostra vista morte e dolore, togliendo loro la possibilità di consigliarci, dirigerci, orientarci, verso una condotta di vita più consapevole e, soprattutto, più vigile e diffidente.
Dovremmo forse farci guidare da morte e dolore? Se qualcuno pensa che fuggire sia di maggior aiuto, si accomodi pure. Ma credo che dal dolore e dalla morte ci sia invece molto da imparare. E credo che la consapevolezza della nostra natura “finita” sia essenziale per donare senso alle nostre scelte e dirigerci verso una vera e propria selezione tra “cose”che vorremmo assolutamente fare nella vita, e “cose” di cui possiamo tranquillamente fare a meno. 
Solo una persona convinta di poter scegliere all’infinito può passare la vita volando costantemente a bassa quota. Questa, almeno, è la mia opinione. Solo chi sa di poter contare sempre su un altro giorno, può procrastinare all’infinito l’esigenza di appropriarsi di se stesso. Dolore e morte, assunti in giusta misura, aiutano a diventare semplicemente più reali. Personalmente, è proprio la consapevolezza che non ho a mia disposizione un tempo infinito a sbloccarmi nei momenti di crisi o di stallo.

Vero è che i telegiornali sono pieni di morti ammazzati e di sciagure, ma non si tratta affatto del giusto approccio alla questione. Non condividiamo affatto un’esperienza di un senso attraverso cifre e numeri, non ci aiuta a comprendere qualcosa su noi stessi, il sensazionalismo da gossip intorno alle tragedie. Come soldati che premono un grilletto di fronte a uno schermo che ricorda sempre  più un videogioco, siamo coinvolti in un processo di disumanizzazione dell’evento della morte. Che cosa impariamo dalle morti in televisione? Paura, diffidenza. Merita, proprio, imparare paura e diffidenza? Tutte le forme di controllo si basano sull’istillazione di paura e diffidenza. Possiamo giusto imparare a essere morbosi verso la morte altrui, seguendo quest’andazzo. Possiamo fagocitare le riviste di certi parassiti dell’informazione alla ricerca della sensazione; lasciarci sedurre dall’approccio alla questione che appartiene ai commercianti di morte. Ma il giornalismo serio è un’altra cosa, lo sappiamo quasi tutti. E i giornalisti seri, che per fortuna ancora esistono, sono pochi, dalle nostre parti.

Il tema auspicabile di un patto di non belligeranza tra uomo e morte è, in realtà, terribilmente complesso. In questa sede mi accontento di fornire qualche spunto alla nostra comune riflessione. Sicuramente non ci aiuta a meditare una realtà artefatta che bandisce dolore e morte e propugna miti idioti come quello dell’eterna giovinezza. Non aiuta e non può aiutare chi in noi non vede altro che compratori. Chi può, tra questa gente, venderci la salute dello spirito? Sapete in quali casi l’uomo invecchia come il buon vino? Quando diviene sempre più se stesso, quando impara a conoscere ed esprimere la propria essenza. La propria unicità. Per taluni ogni ruga racconta una storia. Per molti, invece, un bisturi è lo strumento pietoso per occultare la propria stasi nel mondo; la propria mancanza di una storia dinamica di sviluppo. 

Ce ne vorrebbero tanti, di esempi di “unicità” in televisione. Qualcuno in realtà c’è. Altri riescono a far sentire la loro voce solo attraverso il web; la televisione li ha banditi perché erano troppo “se stessi”. Sono veramente i vip di plastica circondati da paparazzi, quelli cui vorremmo somigliare, gli esempi che vogliamo seguire? Di sicuro, sono gli esempi che ci vogliono convincere a seguire. Acquisti, acquisti, acquisti. Case, macchine, vestiti, chirurghi etc. etc…
Dov’è lo spirito in tutto questo? Dov’è una possibilità spiraliforme di evoluzione, che non si risolva in un girotondo tra un possesso e l’altro? Ci hanno staccato la spina dalla possibilità di compartecipare realmente alla morte e al dolore degli altri, di imparare qualcosa su noi stessi, sui nostri rapporti e sul senso della nostra vita. Non s’impara affatto, restando sconnessi e soli. Si accumula ESCLUSIVAMENTE paura e diffidenza.

Mi viene in mente Martin Heidegger e la sua opera del 1927, Essere e Tempo.

Heidegger sviluppò in senso ontologico una teoria molto interessante sul ruolo della morte nella vita umana. Arrivò a parlare di un “Essere-per-la-morte” come condizione imprescindibile di ognuno di noi. L’uomo, che egli chiamava, purtroppo non scherzosamente, Esserci, vivrebbe, secondo tale visione, gettato continuamente in una condizione di angosciosa impotenza di fronte alla propria irrimediabile mortalità. Tralasciando il più, e anche il fatto che Heidegger non si è mai occupato esplicitamente di antropologia o etica (la sua, lo ripeto, era e rimane una ricerca ontologica), resta che per il filosofo l’angoscia è spia di una precarietà assoluta, dalla quale l’uomo può illudersi di accomiatarsi solo al prezzo della propria autenticità.
Il punto che mi preme cogliere è il seguente: Heidegger racconta che solamente fronteggiando la nostra irrimediabile e angosciata finitezza; solamente assumendo su noi stessi la nostra “mortalità”, possiamo compiere scelte autentiche per la nostra vita. Dissento dalla sua visione per molti riguardi, primo tra tutti per la dimensione d’inautenticità cui relega l’incontro con l’alterità, l’incontro con l’altro uomo. Ma quello che, “in soldoni”, vorrei mettere in luce, è il fatto che Heidegger sostiene che dovremmo compiere ogni scelta rilevante tenendo ben presente che non potremo scegliere all’infinito. Tutto qui. Ogni scelta è a suo vedere, unica, irripetibile; se compiuta alla luce dell’angosciata consapevolezza della propria mortalità, diviene autentica. E noi cresciamo in autenticità grazie ad essa. Riflettiamoci un attimo. Se, al contrario, potessimo scegliere per sempre, e soprattutto contare su uno stesso e variegato panorama di scelte per tutta la vita, quale importanza potrebbe, in definitiva, rivestire ogni singola scelta nella vita di un uomo?
Al giorno d’oggi, al contrario, siamo stati abituati a odiare l’angoscia. La “patologizziamo”, lasciamo agli “esperti” il compito di difenderci dai suoi attacchi. Ma al di là di placebo come la “shopping terapia”, se davvero l’angoscia si rivelasse spia di qualcosa che riveste un valore capitale nelle nostre vite, non sarebbe forse il caso di recuperarne il valore creativo per avvicinare di un passo il percorso verso una liberazione dello spirito? E se angoscia e morte ci aiutassero a rispondere proprio alla domanda su cosa sia la spiritualità?
Può la morte allora, assunta naturalmente alle giuste dosi, dimostrarsi cura, e non malanno? E come somministrarsi la giusta dose di consapevolezza quotidiana? Sicuramente non chiedendo aiuto alla televisione. In televisione si mira ad annientare angoscia e morte; a trattarle come se non esistessero. Confrontandoci con le istituzioni religiose, allora? Non credo che neppure questa sia la soluzione. Non cerchiamo consolazione e non ci serve, non in questo caso, che qualcuno sposti l’attenzione sul “dopo” la morte. Non sto con questo affermando, né negando, di credere in una vita ultraterrena, o in un ciclo di vite. Dico semplicemente che non ritengo attinente al problema qualcosa che vada oltre l’ambito delle nostre scelte, oltre la nostra libertà di autodeterminarci. Dunque: non sarà che dobbiamo recuperare un senso della morte che ci conduca a scelte più consapevoli e libere?
Spunti, briciole di una ricerca da svolgere ognuno per proprio conto e tutti insieme. Niente di più. Ma riflettiamo ancora un momento, prima di salutarci. Se tenessimo perlomeno “abbastanza presente” il fatto che ogni scelta è davvero unica e irripetibile, che ogni scelta, in quanto tale, ha il potere di determinarci, e indirizzarci verso una direzione. Se riuscissimo, per qualche minuto, nell’impresa di saperci veramente “finiti”, se riuscissimo a provare una “gioia” per questa finitezza e magari un ardente desiderio di viverla appieno. Se riuscissimo, infine, a compiere questa rivoluzione interiore: pensate che permetteremmo ancora a qualcuno, in futuro, di scegliere al posto nostro? Permetteremmo ancora ai “soliti noti” di dirci cosa è spirituale e cosa no? Permetteremmo ancora loro di convincerci che quel frammento di realtà su cui, con un così possente dispiegamento di mezzi dottrinali, richiamano continuamente la nostra attenzione, esaurisca l’incolmabile senso della nostra vita? Lasceremmo ancora a qualcuno le redini e la possibilità di decretare cosa deve essere importante, e cosa no, per noi?
Un abbraccio controcorrente

David Di Bella

Articolo pubblicato sul sito Un Filosofo Controcorrente
Link diretto:
http://unfilosofocontrocorrente.blogspot.it/2011/01/spiritualita-e-conformismo.html

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