Il misterioso Num Nafar

Prof. Arnold EhretMolte volte mi sono chiesto, al pari di altri, da dove venisse il nome Num Nafar, attribuito ad Arnold Ehret, ideatore del Sistema di Guarigione della Dieta senza muco.

Num Nafar

Dopo il mio digiuno a Colonia, i giornali pubblicarono il mio nome abbinato al soprannome Num Nafar e da allora cominciarono a scrivermi per saperne l’origine.

Sono restio a soddisfare curiosità che riguardano la mia vita personale, in quanto sono interessato solo a diffondere il mio sistema di guarigione. L’unica volta che mi ricordi di averlo fatto, casualmente in verità, è stato quando un giornalista venne a trovarmi a casa di mia sorella dove intendevo rimanere alcuni giorni per rifinire la bozza del mio libro Kranke Menschen (Uomini Malati) prima di consegnarla all’editore.

Sul tavolo vicino alla finestra del soggiorno, che usavo temporaneamente come scrivania godendo nel frattempo della vista del pesco in fiore in giardino, avevo lasciato un mio quaderno di appunti. Sulla copertina era scritto il mio nome affiancato a quello che nella cultura occidentale viene considerato nome iniziatico: Arnold Ehret – Num Nafar.

Il giornalista, nonché scrittore, Paul Liberner, che era venuto a farmi una intervista per poi scrivere un articolo sul digiuno nella rivista “Lebenskunst” (L’Arte di Vivere), vi pose lo sguardo mentre lo invitavo a sedersi e mi chiese: “Num Nafar?…” sinceramente sorpreso per tale abbinamento di nomi.

Gli spiegai che in quel taccuino avevo raccolto appunti per scrivere un nuovo libro sull’aspetto spirituale della salute e in definitiva sull’aspetto spirituale dell’essere umano e le Leggi della Natura.

Adottare l’alimentazione perfetta nel tentativo di acquisire e mantenere la salute trascurando lo spirito e l’amore per tutti gli esseri, come avviene nella nostra attuale società “civilizzata”, è irrazionale.

Una persona che non si prenda cura del suo spirito inevitabilmente renderà tossico il cibo durante la digestione con gli umori riversati dai suoi organi mal funzionanti a causa delle emozioni negative che inevitabilmente i pensieri di uno spirito contaminato dal male generano.

L’errore che predicatori e uomini di culto fanno è quello di rendere l’uomo colpevole per i suoi “peccati” e gli insegnamenti delle religioni sono volti a reprimere la presunta natura malvagia astenendosi dal commettere “peccati”, pur tuttavia mantenendo solo a freno l’impulso a farli, non a esserne liberi.

Il risultato è una società dove regna l’ipocrisia, dove il “peccato” vive nella mente degli uomini con effetti non minori di quelli causati da chi li commette apertamente. Dietro ai sorrisi forzati possiamo vedere il risentimento, la rabbia e a volte persino l’odio che alberga anche nelle cosiddette persone per bene. La prova è che tali persone sono spesso malate, avvelenate dai propri sentimenti di ostilità repressi.

Non è mia intenzione essere giudice, anch’io ero affetto da tali sentimenti, rivolti verso ignoti e inesistenti dispensatori di torti e di malessere. Nessuno ci fa realmente del male, ma decidiamo che ci viene fatto da altri, mentre in realtà ci facciamo del male da soli albergando nel nostro animo tali sentimenti.

Non abbiamo due nature, una buona e una malvagia, siamo fatti di amore e l’apparenza di possedere anche una natura malvagia è dovuta al fatto che siamo contaminati dal male. Come avviene tale contaminazione verrà spiegata esaurientemente nel mio prossimo libro.

Nasciamo già contaminati. La contaminazione è il “peccato originale”. Il Battesimo è in grado di dare la forza per liberare il nostro essere dalla contaminazione del male, ma non quello che conosciamo oggi nella nostra civiltà occidentale.

Oggi veniamo battezzati da sacerdoti privi di reale conoscenza, attraverso un rituale che è solo forma priva di sostanza, fatto per fare proseliti e “fare cristiano” il nuovo nato non ancora in grado di dare il suo consenso.

Il vero battesimo dei tempi antichi era una reale trasmissione di potere da parte di persone che già avevano vinto il male e il battezzato consapevole lo riceveva in età adulta quando era deciso a ottenere la maturità spirituale. Tale potere realmente conferito gli permetteva di superare le avversità e le difficoltà lungo il cammino. L’acqua era il mezzo tramite il quale fluiva il potere trasmesso dal battista.

Num Nafar

Tutto ebbe inizio durante una tappa di viaggio con un amico, che era guarito con una serie di digiuni e nutrendosi di sola uva, in Palestina presso una comunità rurale che poi scoprii che si definiva essena. Non sapevo chi fossero gli Esseni e tempestavo di domande chiunque fosse disposto a conversare a riguardo.

Vi soggiornai qualche mese dove appresi il vero significato degli insegnamenti dei Vangeli, le loro parche abitudini alimentari e norme salutari che includevano i digiuni e il silenzio.

A proposito del silenzio mi fu detto che parlavo troppo, come tutti gli stranieri, se pur rari, che hanno soggiornato presso di loro. Fu allora che venni a sapere di un russo eccentrico che invece parlava solo quando necessario e che era partito poco prima che arrivassimo.

Era alla ricerca di un monastero dove viveva una confraternita che conservava un insegnamento segreto che riteneva che fosse il condensato di tutta la vera conoscenza pratica per risolvere quello che lui chiamava l’enigma umano.

Aveva chiesto indicazioni e il patriarca della comunità ne aveva sentito parlare e lo indirizzò a Mosul al confine inferiore della Turchia, in quella che una volta era la Mesopotamia.

Elettrizzati da tale prospettiva decidemmo di andarci anche noi e dopo una settimana partimmo. Pernottammo in diversi villaggi e dopo quasi un mese arrivammo percorrendo più di mille chilometri a piedi e su carri trainati da asini o buoi.

Per diversi giorni cercammo informazioni su ciò che doveva essere un monastero e come arrivarci e quando ormai sembrava che nessuno sapesse della sua esistenza eravamo scoraggiati al punto di pensare di continuare il viaggio in Turchia.

Eravamo seduti in una caffetteria dove servivano anche della buona frutta, e quando estrassi dalla bisaccia 100 marchi dell’Impero un uomo si offri di accompagnarci per una banconota come quella.

Era un uomo sui 40 anni, di corporatura snella come quasi tutti gli abitanti di quelle terre, con lunghi baffi che cadevano verso il basso, dall’aspetto serio ma sereno. Lo guardai negli occhi e il suo sguardo rimase fermo e rilassato e decisi che potevo fidarmi.

Il giorno dopo all’alba partimmo, l’uomo ci venne a prendere alla caffetteria dove avevamo pernottato in una stanza al piano di sopra e partimmo dopo aver fatto colazione con dei fichi freschi.

I fichi sono sempre presenti nei pasti in quelle terre, è quasi impossibile volgere lo sguardo da qualche parte senza vederne almeno una pianta.

Il paesaggio era brullo, una valle in mezzo a montagne basse e spoglie. Ogni tanto incontravamo alberi di fichi pieni di frutti dolcissimi con i quali ci saziavamo a volontà e ne facevamo scorta, ma non era davvero necessario, la valle offriva tutto quanto servisse per rifocillarci. Di notte dormivamo in piccole aree erbose circondate da piante di noccioli.

Dopo quattro giorni di cammino, avevo appena bevuto l’ultimo sorso di acqua della mia borraccia di pelle, arrivammo su un piccolo colle dove all’orizzonte in un’area pianeggiante si vedeva una costruzione dall’architettura indistinguibile, tra il romanico e il moresco.

Porsi la mano con due banconote da 100 marchi a Basri, così si chiamava, ma rifiutò la seconda banconota facendo segno che una bastava mettendosi la mano sul cuore in segno di gratitudine. Ci stringemmo la mano guardandoci negli occhi, sentii la sua vitalità scorrere lungo il mio braccio e compresi cosa significa salutarsi con il cuore.

Ci voltammo ognuno verso la propria direzione. Il mio amico salutò alzando una mano sorridendo.

Facemmo le ultime centinaia di metri con passo svelto animati da un’allegra frenesia e arrivammo all’entrata. Non c’era alcun battente sul portone chiuso, rafforzato da due assi trasversali, una in alto e una in basso, finemente lavorato. Non veniva nessuno ad accoglierci e allora presi uno dei miei quaderni grandi e una matita dalla bisaccia, mi sedetti e iniziai a fare un disegno del portone con tutti i particolari.

Era ad anta unica, massiccio e imponente. Al centro c’era una figura in rilievo, un uomo seduto a gambe incrociate alla maniera che avevo visto in un centro di esercizi di orientalismo a Berlino.

La sua figura era armoniosa, il suo volto serafico con gli occhi chiusi esprimeva imperturbabilità.
Dalla sua testa partivano delle linee ondulate che si raggruppavano ai lati del portone formando figure di volti demoniaci dall’aspetto irritato, come se fuggissero da un luogo ormai non più confortevole.

Non avevo ancora finito di fare il disegno, senti il rumore di una sbarra che viene tolta, il portone si aprì e apparve un uomo con una tunica color crema con delle greche di un bel turchese che poi si rivelo essere uno dei monaci della confraternita.

Fummo invitati ad entrare senza presentazioni e a fare un bagno in una vasca grande quanto una stanza dove si accedeva scendendo dei gradini. Non ho mai compreso da dove venisse quell’acqua, era corrente e fredda, entrava e usciva da due buchi nelle pareti opposte. L’acqua di certo non mancava nel monastero.

Un monaco pose sul bordo della vasca due teli di cotone per asciugarci e due tuniche come quella che avevo visto invitando ad indossarle quando fossimo usciti dal bagno. La mia padronanza dell’arabo era pessima, e l’arabo che parlavano era differente da quello a cui ero abituato sentire, ma per tutto il tempo in cui rimanemmo non ci fu mai alcuna difficoltà a comprenderci reciprocamente.

Una volta usciti fummo invitati a condividere un pasto, anzi il pasto, scoprii che si mangiava una sola volta al giorno.

La tavola era di forma rettangolare lunga circa 7 metri e larga uno, di un legno rossiccio levigato, era bassa e ci si doveva sedere per terra a gambe incrociate. Fummo fatti sedere uno a un lato lungo della tavola e l’altro a quello opposto. A me e al mio amico fu offerto un cuscino, che abbandonai dopo qualche giorno.

Ci furono serviti 5 fichi su conchiglie che usavano come piatti, della stessa forma di quella su cui poggia la Venere del Botticelli. Eravamo in 15, il quindicesimo era seduto a capotavola, il lato opposto era vuoto. A capotavola sedeva l’ogretmen, il maestro.

Il maestro disse poche parole, che mi risuonarono come un ringraziamento, invitando poi con un cenno a mangiare. Nessuno parlava pur dando un senso di comunione e condivisione.
Gustai quei meravigliosi doni della Natura.

Alcuni giorni c’erano nocciole precedentemente sgusciate, oppure pesche e altri frutti. Nei mesi freddi zuppe con varie erbe raccolte nei dintorni. Per quanto gli ingredienti non differissero molto di giorno in giorno, ogni pasto mi appariva una novità. E nemmeno soffrii la fame come temevo il primo giorno.

La fame e il dimagrimento sono prodotti dalla mente, ma fino a quando non si riprende il controllo della propria mente, è questo che avviene. Il corpo potrebbe vivere di aria, ma fino a quando non apprende a trarre energia dall’aria e dalla sua forma sottile, vivere di sola aria è impossibile.

Terminato il pasto rimanemmo in silenzio per qualche minuto. Ero imbarazzato, guardavo il mio amico che mi pareva che fosse nella mia stessa condizione, come se fossimo le uniche due persone incapaci di fermare i pensieri casuali che volteggiavano nella testa, tentando di fermarli, come se gli altri presenti li potessero leggere, nel tentativo di evitarlo.

Il maestro si alzò dirigendosi nella stanza attigua senza porta, e gli altri monaci a seguire invitandoci a fare altrettanto.

Avvennero poi le presentazioni e conobbi il russo che aveva ispirato il mio viaggio, un uomo con baffi imponenti e occhi neri dallo sguardo penetrante con il sorriso di un bambino e dotato di accorta gentilezza e grande forza interiore.

Non chiesi di restare, fu dato per scontato, vi rimasi alcuni mesi partecipando alla vita quotidiana seguendo la disciplina, gli insegnamenti e le pratiche in quel luogo senza tempo per diventare… una testa vuota.

Nella nostra cultura, essere una testa vuota significa essere una persona dotata di scarsa intelligenza, mentre secondo la conoscenza insegnata in quel monastero significa una testa dove non alberga più alcun pensiero e azione e intenzione diventano la stessa cosa.

Quando mi ritrovai fuori in abiti mondani pronto per ritornare a Sankt Georgen, e il portone alle mie spalle si chiuse, ero Num Nafar.

Arnold Ehret

(Arnold Ehret non scrisse mai il libro riguardo a questa esperienza. Morì prematuramente a seguito di un incidente. Così scrive il suo editore dei libri in lingua tedesca:

I libri di Arnold Ehret, il quale purtroppo ha trovato una morte prematura (“incidente”?) in paesi lontani, sono andati esauriti da tempo e vengono molto richiesti. Questo porta l’editore a rischiare, pur tra molte difficoltà, di ristampare “Kranke Menschen” in 7000 copie accanto alla nuova pubblicazione di questo testo. A ciò si aggiunge, in 5000 copie, “Fastenlehre” (Insegnamenti sul Digiuno), dello stesso autore, una guida con delle istruzioni pratiche per i seguaci di Ehret.

Ehret è morto, ma questo apostolo della salute continuerà a vivere nelle sue opere, per la gioia dei molti seguaci dei suoi principi originali, stimati anche da molti medici, e che sono utili alle persone sia sane che malate.

Fürstenfeldbruck, autunno 1923.
Carl Khun Editore)

Fonte

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