In queste riflessioni ci sono tutti i capisaldi di una strategia che, oggi piú che mai, dovrebbe essere sentita come il solo orientamento educativo capace di raddrizzare e rafforzare quella cultura che rende una società autenticamente civile e progredita. Diciamo dovrebbe, perché in pratica le cose stanno ben diversamente. Tutto parte dal relativismo che negli ultimi venti anni si è affermato dopo la crisi delle precedenti proposte culturali (razionalismo, positivismo, nichilismo ecc.), costituendo le basi della cultura «postmoderna» ovvero del «pensiero debole», come è conosciuto dai piú.
Per questo le idee allo stato di opinione, che costituiscono la base delle ideologie massificanti, rappresentano, oggi, un dato di fatto diffuso e radicato. La mentalità dominante non corrisponde mai a una ricerca personale seria ed approfondita della realtà, ma sempre e solo a una risposta immediata ed emotiva, a un sommario giudizio, sulla base di valutazioni invariabilmente date prima di una lettura dei fenomeni. Oggi, quindi, la tendenza culturale piú diffusa è quella che ha portato all’estremo il bisogno di spaccare sempre verticalmente il mondo in due parti: da un lato il bene e dall’altro il male. Da una parte i buoni e dall’altra i cattivi. Per questo si potrebbe tranquillamente affermare che un neo-illuminismo semplicistico pensa ancora che l’uomo sia buono per natura e che le idee corruttrici e gli esempi corruttori di una società corrotta lo facciano deviare dalla sua originaria ingenuità. Ma, per decidere quali sono le idee corruttrici e per catalogare i comportamenti corruttori, la mentalità dominante fa ricorso proprio a una comunicazione sofistica. Tutto sta nel dimostrare che i buoni sono quelli che credono buone le teorie che promettono di realizzare società perfettamente funzionanti in teoria e i cattivi sono quelli che si richiamano alla realtà e che smascherano di volta in volta le contraddizioni e la violenza materiale e morale di coloro che si accontentano di avere fede in un modello terreno. Reciprocamente, quindi, pochi «opinion makers», cosí come i leaders politici, che fanno della ideologizzazione il proprio pane quotidiano, si attribuiscono la funzione di definire ciò che è bene e ciò che è male per i molti. È in questo, soprattutto, che risiede il potere, oggi come ieri. Il potere è raggiungere e detenere il ruolo in cui sia possibile imporre agli altri ciò che risponde al seguente assunto pensato, ma mai dichiarato apertamente: – Lo so io che cosa è giusto per te! –. E tutti non si accorgono che resta loro solo il compito di obbedire, ma credono che quello che viene loro additato sia giusto per sé e per gli altri (il cosiddetto bene comune). Cosí, in passato, si sono sempre costruite le società ingiuste e cosí si costruisce, oggi, la società di massa postmoderna, secolarizzata e pragmaticamente materialista. Questo manicheismo moralistico è proprio figlio del relativismo e della diffusione generalizzata della comunicazione sofistica, che, negli uomini del potere, ha sostituito la comunicazione autoritaria e/o paternalistica dei passati regimi. L’abilità nella comunicazione come strumento di potere consiste proprio nell’esprimersi in modo tale da produrre negli altri il massimo dell’individualismo coniugato con il massimo del conformismo senza che gli altri se ne avvedano. In buona sostanza il costruttore di opinione oggi ragiona cosí: «La mia idea e la mia volontà possono dominare sugli altri, purché rinunci a esternare il mio proposito utilitaristico». In tal modo si scambia il valore della conoscenza e della intelligenza (capacità di andare a fondo nella lettura delle cose) con la astuzia (capacità di uscire sempre vincitori con vantaggio personale in ogni situazione).
Quindi, tutto il problema della esperienza viene spostato dal livello del contatto autentico con la realtà al livello superficiale del linguaggio e di ciò che si afferma, senza bisogno o possibilità di controllo e di verifica. Per di piú, quando un sistema di convivenza civile, come la democrazia, viene svuotato di valori forti e di principi, quali per lungo tempo sono stati quelli cristiani, si perde del tutto la possibilità di tale controllo, che viene piuttosto delegato incoscientemente ai media, diventati, ormai, giudici e maestri di interi Paesi, al servizio dei gruppi di potere. Inoltre il problema dell’utilizzo dei linguaggi nella comunicazione sofistica punta piú alla capacità di organizzare bene il discorso (cioè alla struttura dei segni) e alla caratteristica esteriore dei messaggi che non al rispetto di quegli aspetti che Taddei indicava come «verità logica», «verità morale» e—«verità ontologica». Soprattutto, la comunicazione sofistica stravolge il concetto di verità morale (intesa come adeguamento della mente alla realtà), perché prescinde dall’obbligo di un vincolo con la realtà conosciuta. La verità morale viene, cosí, rispettata solo apparentemente, in quanto il riferimento non è piú alla realtà in sé, ma alla idea, al disegno di imporsi sugli altri e quindi alla esigenza di trovare i segni adatti allo scopo. In poche parole: è l’obiettivo che si intende raggiungere (cioè l’idea progettuale) che diventa una realtà, rispetto alla quale formulare una nuova idea da tradurre in segni. Esemplificando banalmente: non è piú un qualunque evento in sé la realtà di cui parlare; essa è quello che si vuol far diventare quel determinato fatto nei confronti dei destinatari della comunicazione per ottenere il loro consenso. Se ad esempio la realtà di fronte a cui ci si trova è un fatto di violenza contro una donna, nel mondo della comunicazione sofistica la realtà circa cui ci si impegna non è l’informazione sul fatto in sé, ma quanto il fatto può «rendere» in termini di potere convincente nei confronti di un pubblico. È l’interpretazione piú adatta «in funzione di…». E «in funzione di…» vuol dire tante cose: dal vendere piú giornali o avere piú audience, fino al vero e proprio obiettivo di formare il modo di pensare del pubblico per garantire il consenso alla propria parte politica . La realtà come semplice verità dei fatti finisce per rimanere, quindi, molto, ma molto, indietro rispetto alla necessità di conquistare il consenso delle persone e di tenerle legate alla concezione di vita che il medium vuole sostenere.
Il senso dell’importanza di affermare una morale al posto del moralismo, attraverso la comunicazione, si comprende solo se alla concezione della divisione verticale del mondo se ne sostituisce un’altra: quella di una divisione orizzontale della società, quanto a capacità di ancorarsi alla realtà. Chi è in grado di riconoscere che nella conoscenza vale di piú il reale, rispetto alla quantità di interpretazioni ideali che vengono comunicate dagli altri, appartiene a una fascia che trasversalmente tocca ogni genere e ogni tipo di persone, indipendentemente dall’ambiente, dalla cultura e dalla ideologia cui appartengono. Tale fascia rappresenta di per sé un livello di moralità del pensiero piú alto di quello di chi si affida semplicemente alle idee altrui, per il solo fatto che non costringe la realtà dei fatti a piegarsi fino a quadrare con le teorie che si sono sposate. Chi, al contrario non riesce a distinguere tra ciò che gli viene comunicato (le idee degli altri) e la esperienza diretta nei confronti della realtà è portato ad appartenere a una fascia umana, anch’essa trasversale, che non può far altro che applicare nei suoi giudizi quel moralismo di cui s’è detto e quella conflittualità con se stesso e con gli altri, dovuta alle contraddizioni di un pensiero relativistico.
Anche nella visione della componente umana si deve accettare una natura fatta di male, che sta al fondo di ognuno, e di bene che sta a un livello piú alto, ma che si può raggiungere solo se ci si innalza dal livello basso nel quale tutti, in quanto uomini, sono e possono essere invischiati. Non è questa la teoria del peccato originale venduta a buon mercato; è la constatazione ancora una volta del primato del reale sul concettuale, del primato della conoscenza per esperienza su quella per comunicazione, della morale sul moralismo. Trascurando il fatto che anche i cattolici non sfuggono a una tentazione di interpretazione moralistica e non morale del mondo, quando privilegiano in astratto le conoscenze teoriche su quelle che provengono dalla esperienza, il sistema dei comportamenti è oggi disancorato dalla realtà per una serie di concause tra cui sicuramente quella del linguaggio dell’immagine ha la sua non piccola importanza. La comunicazione sofistica in senso moderno, quella che pensa di potere fare a meno della realtà, nasce al tempo della rivoluzione francese e da lí continua in un unico processo fino ai giorni nostri, ma con un momento di grande espansione e divulgazione che è il Sessantotto. Senza entrare in dettagli, è dunque una cultura che si espande e domina le coscienze, anche grazie alle tecnologie, anche a causa di cinema e tv, ma sono i modi di ragionare stessi che sono diventati i veri contenuti della comunicazione sofistica e non i riferimenti a una eventuale realtà. L’esempio palpabile della trasformazione dei comportamenti umani ad opera dei modelli suggeriti dal cinema, dalla televisione e dalla stampa di massa è quotidianamente verificabile da tutti. Non solo gli influssi della pubblicità negli acquisti, ma anche il sistema e la gerarchia dei valori sono stati sconvolti da idee trasformate in comportamenti suggestivi amplificati dai mass media. Tutti possono facilmente riflettere sul fatto che tante delle cosiddette conquiste della modernità si sono realizzate proprio grazie a una diffusa opinione di massa favorita dalle storie e dalle vicende umane trasmesse dai media. La cosiddetta fiction ha fornito a generazioni una etica comportamentale assai piú di quanto non abbiano saputo fare famiglia, scuola e chiesa messe insieme. E non solo in fatto di etica della sessualità alla quale è stata data sempre soverchia importanza sia pro che contro, ma addirittura nella individuazione e nel discernimento di ciò che è bene e di ciò che è male, di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, una intera società occidentale ha tratto ispirazione dalla cultura di massa, anche perché, proprio la famiglia, la scuola, la chiesa la hanno a lungo snobbata o sottovalutata o al massimo considerata sotto il profilo puramente tecnico, senza comprendere nemmeno quelle indicazioni che provenivano dal magistero di grandi intellettuali come Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, Popper, Postman, Mc Luhan e pochi altri.
Ammettendo dunque che sia compito di chi vuole essere libero interiormente rivalutare l’importanza del reale, dobbiamo perciò parlare di «Realismo comunicativo» perché, dopo il ritorno alla realtà dell’esperienza e all’esperienza della realtà, dobbiamo anche comunicare questo patrimonio recuperato. Ma comunicare vuol dire cadere sotto il dominio dei segni che esprimono idee in quanto interpretazioni della realtà. E allora? Non c’è via di scampo: bisogna insegnare ad avere piú fiducia nello studio della comunicazione e meno fiducia nella storia delle idee. La storia delle idee, come insegnano tutta una pedagogia e una didattica della scuola italiana, può essere a piacimento manipolata a beneficio delle ideologie dominanti, mentre la indagine sulla struttura dei fenomeni può difficilmente essere falsificata se si possiedono gli strumenti scientifici adatti alla lettura. La prima conquista da fare per rendersi indipendenti da rischi è quella di giovarsi della distinzione tra linguaggio dei concetti e linguaggio dell’immagine e di tutto il patrimonio della educazione alla lettura dei media accumulato da Taddei, ma sarà obbligatoria anche una riflessione sulla portata insignificante alla quale si è progressivamente ridotta la conoscenza per esperienza diretta, nella vita del singolo individuo, da quando i mass media sono diventati di prepotenza la prima fonte nella formazione della personalità. La lettura approfondita dei linguaggi dei media non può essere confusa con una tecnica o con una esercitazione da specialisti. Occorre recuperare l’importanza di quello che ci capita tutti i giorni rispetto a ciò che si legge, si ascolta o si vede sui media. Diversamente diventa difficile ricomporre uno stato di integrità e dignità umana. Anche se quello che ci capita sotto il profilo della esperienza è poco, pochissimo quantitativamente, esso è tremendamente importante qualitativamente in quanto riguarda noi direttamente e singolarmente e non altri o non un pensiero o una idea, ma una trasformazione piccola o grande della nostra esistenza. Cosí un dolore, fisico o morale. Cosí una gioia. Cosí il male o il bene fatto concretamente. Cosí la morte. L’esperienza non si può condividere nella sua essenza, né si comunica semplicemente; si vive individualmente e il contenuto di ogni esperienza di vita riguarda un uomo nella sua unicità esistenziale. Il resto, cioè la condivisione della esperienza, è, quanto meno, un modo di dire che riguarda il livello della comunicazione, cioè il livello che i segni e le idee presentano in funzione di quello che vogliono ottenere dal recettore della comunicazione. Davanti alla stessa realtà le esperienze sono singolari e non collettive e il contatto con la stessa realtà da parte di persone diverse produce conoscenze diverse, che influenzano comunicazioni diverse. La realtà, che è conosciuta e sperimentata individualmente, diventa comunicabile, non in sé oggettivamente, bensí subordinatamente alla conoscenza (idea) che viene distillata nel segno, che indica o rappresenta tale realtà unitamente alla marca di tipo soggettivo consistente, sia nella interpretazione della realtà, sia nella adozione del segno che viene ritenuto piú adatto alla funzione di raggiungere il recettore della comunicazione. Quello che si condivide, dunque, è il livello dei segni che parlano di una idea che si riferisce a una realtà, ma non si parla della realtà, si parla della propria idea, della propria conoscenza di una precisa realtà. Come si fa allora a dare un senso all’espressione «Realismo comunicativo» se essa sembra solo una contraddizione in termini e se appare in pieno la impossibilità di fare coincidere realtà con i segni che servono alla comunicazione della conoscenza individuale di essa? Accettare la distanza abissale che c’è fra le due cose e pretendere che tutte le forme di comunicazione, sistematicamente, auto-denuncino sempre il proprio limite e la propria insufficienza come un male concretamente dipendente dalla natura stessa dell’uomo non potrà portare lontano, per quanto questa sia già una prova di onestà intellettuale. Sotto il profilo logico, di indagine strutturale sul rapporto realtà-comunicazione, siamo allora inchiodati e verrebbe voglia di dire crocifissi. Anche la prospettiva di affidarsi alla antropologia e invocare la ragionevolezza come conquista di una consapevolezza che attenua le rigidità della ragione nella pretesa di esaurire ogni spiegazione della realtà non convince. Logica, filosofia e antropologia non risolvono il problema perché cozzano contro l’ostacolo del linguaggio, senza il quale non potrebbero né raccontare, né raccontarsi. Ancora meno servono psicologia e sociologia, scienze, cosiddette umane, che vivono esclusivamente sul piano della interpretazione dei fenomeni generali basandosi sulla indagine del soggettivismo emozionale o sulla campionatura quantitativa del mondo circostante nella pretesa di estrapolarne la qualità. La realtà non ha bisogno di un linguaggio: semplicemente è. Siamo noi, anche noi realtà appartenente all’universo dell’essere, che, quando cominciamo a distinguere tra il nostro e l’altrui essere, ci mettiamo a spiegarcela o a parlarne per descriverla e, per spiegarcela o descriverla, troviamo classificazioni e distinzioni, servendoci del linguaggio. E cosí costruiamo le impalcature che servono ad ammettere o a tenere lontani gli altri e la realtà esterna stessa dal nostro mondo interiore. Ma le gabbie piú inespugnabili e piú efficaci nel tenere lontano il reale sono proprio quelle costruite dai media della immagine con il loro modo di esprimersi, prima ancora che con i loro contenuti. È questa dunque la conferma della teoria cosí affascinante nella cultura del ‘900 e che va sotto il nome di «incomunicabilità»? A prima vista sembrerebbe proprio di sí. Ma allora, se cosí fosse, sarebbe tutto finito nel «non senso» della vita e nell’assurdo di ogni idea che trascende la materia e la finitezza terrena dell’uomo. Eppure è proprio dalla metodologia di lettura di Taddei che ci viene un aiuto a prendere le distanze dal nichilismo e dal relativismo! Cercare di adeguare il linguaggio alla realtà è stato il compito pregevole dell’arte e della letteratura che hanno dato vita a realismo, verismo, naturalismo, esistenzialismo! Ma, per quanto la tensione e lo sforzo artistico siano stati grandi, tutto ciò non è bastato a colmare il fossato che c’è tra segno e realtà. Soprattutto lo strapotere delle ideologie dell’uomo, tradotto in messaggi per la massa, la ha sempre avuta vinta sulla realtà stessa e qualsiasi opera di realismo è diventata o propaganda semplicisticamente zdanovista (il realismo della Unione Sovietica) o, nel migliore dei casi, retorica celebrativa della natura impregnata di spontaneismo postmoderno. Portare invece la realtà dentro il linguaggio dovrebbe essere lo sforzo improbo di chi non si accontenta di raccontare le sue idee, ma vuole essere raccontato dalla sua vita reale. Bisogna che «il verbo si faccia carne». Non è solo un modo di dire o una dichiarazione di religiosità. È un salto, non verso il mistero, ma verso la conoscenza della essenza profonda del senso della vita che non teme alcuna fine o alcun vuoto. Ma come? Il linguaggio per eccellenza di un Dio, che non sia frutto della invenzione dell’uomo e del mito, è stato quello dell’Incarnazione e della assunzione della dimensione storica in funzione di una Redenzione, cui niente e nessuno, se non un Amore estremizzato per la creatura «ha costretto» il Creatore stesso. Ma per noi? Per noi reale è ciò che è e non può non essere, e di cui non è logicamente possibile negare la esistenza sotto il profilo della semplice possibilità. Di fronte a questa constatazione non ci resta che percorrere la strada inversa a quella della Incarnazione per riconquistare quello stato che abbiamo perduto con il peccato originale. Si tratta di una faticosa, ascetica, lettura della nostra vita e del mondo, in direzione di un progressivo abbandono della «falsa terrestrità» suggerita dai linguaggi dell’immagine. Ecco allora che per far questo viene in aiuto proprio l’imponente lavoro di lettura strutturale sui media elaborato da Taddei. Con esso si smaschera la confusione creata dalla comunicazione sofistica e si restituisce la giusta importanza alla realtà. È questa l’unica strada da seguire per riappropriarsi di un rapporto con il reale, in un mondo dominato dal linguaggio dell’immagine, che, per sua natura, invita a confondere proprio l’essenza delle cose con la loro rappresentazione.
FONTE: EDAV