«Con la pressione fiscale più alta in Europa, costi di produzione astronomici ed una burocrazia da terzo mondo, lavorare bene in Italia ed essere
E’ il caso di Alitalia: nel 2008 i francesi offrirono 6,5 miliardi di euro per gli investimenti necessari a far ripartire l’impresa in cambio del pacchetto di maggioranza dell’azienda, ma Berlusconi – allora in campagna elettorale – disse di no e guidò l’Operazione Fenice, alla quale parteciparono alcuni suoi “accoliti”, industriali e manager, con lo scopo di far rimanere italiana la storica compagnia di bandiera. «Risultato: oggi l’Alitalia trasporta circa 25 milioni di passeggeri, meno di un quarto di quelli di Lufthansa e meno di un terzo di quelli della compagnia low cost Ryanair e del gruppo franco-olandese Air France-Klm. Un disastro!». Lo Stato italiano, continua Napoleoni, ha buttato quattro miliardi di euro per sanare il fallimento dell’Alitalia, e la cordata di imprenditori capitanata da Roberto Colaninno e Intesa Sanpaolo ha perso un altro milione. Le leggi ad hoc varate dal governo Berlusconi sulla chiusura del mercato, col divieto d’intervento per l’Antitrust sulle tratte monopolistiche detenute dalla nuova Alitalia, non hanno funzionato. «Il destino triste dell’industria italiana è segnato dall’inettitudine
Nel 1992, dopo la storica svalutazione competitiva della lira, Mario Draghi – allora direttore generale del Tesoro – ha guidato i primi “saldi all’italiana” sul mercato internazionale: multinazionali angloamericane, ma anche francesi e svizzere, sono piombate in Italia per “fare shopping”, in cerca di società da comprare a poco prezzo, specie nel settore agroalimentare e in quello della meccanica di precisione. La Nestlé, per esempio, ha comprato l’Italgel per 680 miliardi di lire, contro una valutazione di 750. Anche i giganti italiani, però, hanno guadagnano dallo smembramento del patrimonio nazionale: il gruppo Benetton, ricorda Loretta Napoleoni, si è aggiudicato per 470 miliardi Gs autogrill, che poi ha rivenduto ai francesi di Carrefour per 10 volte tanto. Cedute anche le grandi compagnie di servizi: privatizzata totalmente la Telecom, oggi fagocitata dalla Telefonica spagnola, e parzialmente l’Enel e l’Eni. Ma la svendita del made in Italy non ha portato, come era stato promesso, al miglioramento dei conti pubblici. Al contrario: ha contribuito al processo di deindustrializzazione che oggi preoccupa la Commissione Europea. Lo provano le cifre, conclude l’analista: «Nel 1994 il debito pubblico ammontava a 1.771.108 miliardi di lire, mentre il gettito generato dalle privatizzazioni per il triennio 1993-1995 fu di appena 27.000 miliardi, meno dell’1,5%».