C’era una volta la grande bellezza

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di Claudia Fanti*

È stato chiamato il Belpaese e mai appellativo fu più giusto. Il «bel paese ch’Appennin parte e ‘l mar circonda e l’Alpe» lo definì già Petrarca nel Canzoniere. Bella, l’Italia, per i suoi paesaggi, per i suoi tesori, per i suoi borghi, per il suo immenso patrimonio archeologico e culturale, per i prodotti della sua terra. Bella eppure ferita, deturpata, sfigurata dalla crescita incontrollata e disordinata dei centri urbani, dagli ecomostri, dall’asfalto, dall’incuria: assassinata dal cemento, come cantava De Gregori in Viva l’Italia.

Un’aggressione impressionante, continua, impietosa alla nostra “grande bellezza” che un recente rapporto dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) ha tradotto in cifre che lasciano interdetti: la cementificazione, in Italia, avanza al ritmo inaudito di 8 mq al secondo. E proprio questo, 8 mq al secondo. Salvare l’Italia dall’asfalto e dal cemento, è il titolo del piccolo ma densissimo libro di Domenico Finiguerra, appena pubblicato dalla Emi per la collana Emisferi, dedicata «al nostro mondo com’è, e come lo vorremmo» (pp. 63, euro 4,50). Un opuscolo «economico ed ecologico» (un ottimo regalo e anche, perché no, una preziosa bomboniera), scritto da un autore con tutte, ma proprio tutte le carte in regola: Domenico Finiguerra, classe 1971, già sindaco, dal 2002 al 2012, di Cassinetta di Lugagnano – piccolo paese della provincia di Milano entrato a far parte nel 2008 dell’Associazione Comuni Virtuosi e vincitore del premio nazionale Comuni Virtuosi nella categoria “Gestione del territorio” (come modello di crescita zero urbanistica); co-promotore della campagna nazionale “Stop al Consumo di Territorio” e del Forum nazionale Salviamo il Paesaggio), fondato proprio a Cassinetta di Lugagnano nel 2011; oggi consigliere comunale ad Abbiategrasso alla guida di una lista civica e candidato alle Europee per la lista “L’altra Europa con Tsipras”, la lista autonoma della società civile che sostiene il leader del partito greco Syriza Alexis Tsipras come candidato alla presidenza della Commissione Europea, contro il ritorno dei nazionalismi, le Costituzioni calpestate, i Parlamenti asserviti (e che, tra i principali punti del suo programma, ha quello di una «trasformazione ecologica della produzione, per rispondere alla crisi ambientale e dare priorità alla qualità della vita»).

«Otto metri quadrati al secondo – scrive Finiguerra – è il ritmo con cui vengono asfaltate e cementificate la bellezza, la biodiversità, l’agricoltura e la cultura del nostro Paese»: 8 mq al secondo che, «moltiplicati per i secondi di un anno, che sono 31 milioni e 536.000», fanno oltre 252 kmq, dunque «un quadratone dal perimetro di 63,2 km». Un attacco che sembra inarrestabile, evidenzia l’autore. Di più: un vero «suicidio nazionale, perché la bellezza potrebbe essere il vero motore del progresso italiano» e invece si ritrova ad essere sistematicamente violata da «azioni pianificate di devastazione». Con conseguenze incalcolabili anche in termini di riduzione dell’autonomia alimentare (il nostro Paese ha perso dal 1971 al 2010 quasi 5 milioni di ettari di superficie agricola utilizzata), di dissesto idrogeologico (con danni pari a 61 miliardi di euro in poco più di 60 anni), di concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera (con la perdita di fonti di «frescura naturale» come la fittissima rete di canali che disegnano il paesaggio lombardo), di minacce alla biodiversità (garantita solo dalla disponibilità di terra non cementificata e fertile), e persino di crescita del malessere psicologico (quel disagio che si prova nel percorrere chilometri e chilometri senza più provare il minimo «sussulto di stupore», dinanzi al monotono susseguirsi di capannoni, supermercati e case, nel condannare i nostri figli a «fare i criceti in parchi giochi di plastica “regalati” dalle speculazioni edilizie per compensare le perdite di valore ambientale»): aspetti, tutti questi, su cui Finiguerra si sofferma nel suo prezioso libretto.

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C’è spazio, tuttavia, anche per la speranza, considerando che l’aggressione «silenziosa e costante» del cemento ha «trovato in numerose città, paesi e angoli talvolta remoti e nascosti chi è determinato a contrastarla: una fitta rete di gruppi ambientalisti, associazioni, forum e liste civiche che, anche grazie alla formazione del Forum nazionale Salviamo il Paesaggio, con i suoi quasi mille comitati locali, sta dando vita a una vera forza di opposizione nazionale alla devastazione dei territori, protagonista di innumerevoli battaglie locali e nazionali, dalla piccola variante urbanistica alla grande speculazione immobiliare fino alle grandi opere. Senza contare l’ottantina di Comuni Virtuosi che hanno già aderito alla strategia Consumo di Suolo Zero e il sostegno ufficiale alla battaglia contro l’impermeabilizzazione del suolo espresso dalla Fillea Cgil, il maggiore sindacato italiano dei lavoratori dell’edilizia, finalmente convinto della necessità di puntare sul recupero e sul restauro dei centri storici e dei borghi antichi del nostro Paese come pure sugli indispensabili interventi di messa in sicurezza del territorio. Una resistenza, però, che «è urgente allargare a macchia d’olio», trasformando «questa moltitudine varia di lottatori per la salvaguardia della terra, del paesaggio, dell’ambiente, della biosfera» in un vero movimento politico di opinione, affinché la conversione ecologica diventi «un’esigenza sociale collettiva».

Di seguito alcuni stralci dell’opuscolo di Finiguerra.

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La grandezza di un fenomeno

Saccheggio e distruzione del territorio, consumo e impermeabilizzazione dei suoli, sprawl o dispersione urbana. Quanto è ampio in Italia questo fenomeno, che possiamo chiamare in modi diversi, a seconda del contesto più o meno scientifico in cui viene trattato, della cementificazione?

È opportuno premettere che, pur trattandosi di un fenomeno che riguarda gran parte del continente europeo (e quasi tutte le aree del pianeta industrializzate o i Paesi in via di sviluppo), il consumo di suolo (soil sealing) in Italia ha avuto accelerazioni molto significative, portando il nostro Paese a percentuali di occupazione del suolo superiori al tasso medio europeo. A fronte di una media dei Paesi Ue del 4,3%, in Italia abbiamo un suolo impermeabilizzato per il 7,5%.

La preoccupazione per la perdita dei suoli (aumentata a un tasso doppio rispetto all’incremento demografico) ha portato l’Unione Europea a fissare l’obiettivo del consumo zero di suolo entro il 2050. Un obiettivo ambizioso, che tutti (o quasi…) sperano non finisca tra gli altri obiettivi puntualmente rinviati o messi in secondo piano per non intralciare la macchina economica, che deve macinare chilometri di «crescita».

Negli ultimi anni, è stata costante l’azione di denuncia e di sensibilizzazione condotta da migliaia di italiani, prima con la campagna nazionale Stop al Consumo di Territorio poi con l’azione del Forum Salviamo il Paesaggio, gli studi e gli osservatòri.

Tantissime anche le pubblicazioni che hanno cercato di raccontare i casi più emblematici di deturpamento del térritorio italiano ad opera di speculatori e giunte comunali di ogni colore e di ogni latitudine.

Alle raccolte di dati su metri cubi e superfici lorde di pavimento (Sip) e ai censimenti del cemento effettuati da ambientalisti e comitati d cittadini (…), si aggiungono le numerosissime misurazioni compiute da università, istituti d ricerca e dipartimenti di vari ministeri della Repubblica.

Tra tutte, quella che più colpisce è sicuramente la misurazione sintetizzata in un recente rapporto dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale): 8 mq al secondo, appunto.

8 mq al secondo, moltiplicati per i secondi di un anno, che sono 31 milioni e 536.000, ci danno 252.288.000 mq. Ovvero oltre 252 kmq.

Siamo disponibili a consumare questa quantità di terra anche negli anni venire?

252 kmq sono un quadratone dal perimetro di 63,2 km: 15,8 ogni lato. Ecco! Quel bel quadratone è la quantità di terra che ogni anno consumiamo in Italia.  Non basta per comprendere? Ok. Allora si pensi che l’isola di Salina sarebbe completamente impermeabilizzata in soli 36 giorni. Tutta Salina, comprese le spiagge dell’indimenticabile Il Postino, quelle dove passeggiavano e intrecciavano pensieri Philippe Noiret (Pablo Neruda) e Massimo Troisi (Mario Ruoppulo).

L’attacco alle coste italiane è particolarmente violento. Lungo il litorale adriatico l’urbanizzazione è avanzata a un ritmo ‘impressionante: 10 km l’anno. Seconde case, villette, condomini e alberghi hanno ormai sigillato oltre i 2/3 della costa. L’intera fascia costiera misura 1.472 km, da Trieste a Santa Maria di Leuca.

Nel 1950 era libera per 944 km; oggi è rimasta non urbanizzata per soli 466 km. Percorrendo in treno (più che in auto) il tratto romagnolo e marchigiano della costa ci si rende conto di quanto sia intensa e continua l’urbanizzazione: oggi “andare al mare” significa “andare in città”.

Ma, oltre i crudi dati quantitativi, aiuta molto a descrivere il fenomeno l’esperienza personale di ciascuno di noi. Come sono cambiati gli scenari delle nostre passeggiate? Che fine hanno fatto i campi dove eravamo soliti vagabondare nei pomeriggi della nostra adolescenza? Ci sono ancora i fossi, i canali, le rogge dove andavamo a pescare, noi ragazzini in cerca di avventura nelle periferie agricole e boschive di medie e grandi città?

E come sono cambiati i paesaggi delle nostre mete di villeggiatura? Le coste liguri, ad esempio, sono le stesse dei primi anni Sessanta? E il litorale laziale? li profilo della terraferma che ammiravamo facendo un bagno al largo di Agrigento o di Villasimius è lo stesso? Le Ville Palladiane sul Brenta le ricordiamo circondate da capannoni e centri commerciali? (…).

A parte poche eccezioni di paesaggi modifica ti in meglio, sono sicuramente ben impresse le sensazioni di privazione di bellezza che ci assalgono quando, tornando a distanza di decenni negli stessi luoghi e mettendoci nella stessa posizione da cui ammiravamo un panorama mozzafiato o una vista serena, ci accorgiamo del disastro compito in poco tempo dall’homo sapiens (sapiens?).

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La terra ci serve per mangiare

La terra non è rinnovabile, non è infinita e purtroppo non è indistruttibile.

La terra svolge moltissime funzioni e non è sostituibile da alcun altro “supporto”. Essa è l’hardware su cui girano moltissimi “sistemi operativi” e, senza di essa, molte nostre attività cesserebbero all’istante o si incepperebbero.

Partiamo dalla prima e più intuitiva delle funzioni della terra, quella primaria del suolo agricolo: la produzione di biomassa vegetale e di materie prime agroalimentari, la produzione di cibo per gli esseri viventi.

(…). Il nostro Paese negli ultimi anni ha visto decrescere costantemente la propria sovranità alimentare. La superficie agricola utilizzata, negli ultimi 40 anni, è scesa del 28%.

Se nel 1991 avevamo un’autonomia alimentare che superava il 92%, in 20 anni l’abbiamo vista costantemente scendere fino a quota 80% (nel 2010). Oggi l’Italia ha un grado di auto approvvigionamento che ruota attorno ai 4/5 del fabbisogno alimentare. Inoltre l’Italia è il 3° Paese in Europa e 5° nel mondo nella classifica del deficit di suolo.

Per garantire i nostri consumi e gestire lo smaltimento dei nostri rifiuti (impronta ecologica) ci servirebbero 61 milioni di ettari di suolo libero. Ce ne mancano 49. Disponiamo infatti di meno di 13 milioni di ettari (ne avevamo 18 milioni nel 1971!). proseguendo con questo ritmo saremo sempre più dipendenti dalla produzione di altri Paesi e dovremo sempre più piazzare i nostri rifiuti altrove.

Soprassedendo sul tema vasto dei rifiuti e della loro gestione, domandiamoci qui se è importante essere autonomi dal punto di vista alimentare. (…).

La popolazione mondiale è in costante aumento. Secondo l’Onu, nel 2014 ha superato i 7 miliardi e 200 milioni e le stime per il 2050 sono di quasi 9 miliardi. Numeri che mettono (e metteranno sempre più) i governi di tutti i Paesi di fronte alla missione primaria di riuscire a sfamare tutti (tutti?) i propri governati. Pronti ad approfittare della situazione, gli attori economici più potenti (compresi alcuni soggetti italiani) che agiscono nei mercati globali si stanno attrezzando (…) per lucrare sull’esigenza indispensabile di ogni essere umano: mangiare.

Tornando all’Italia, la presenza di diversi indicatori quantitativi, che già dovrebbero invitare a ferree politiche di tutela del suolo, dobbiamo aggiungere indicatori di tipo qualitativo strettamente connessi proprio al cibo: le terre italiane sono tra le più fertili del pianeta e il loro prodotto potrebbe essere di qualità eccezionale.

La tutela del suolo agricolo italiano è azione indispensabile quanto ovvia se si desidera davvero tutelare i prodotti agricoli, le loro peculiarità e unicità. Tipicità che sono parte importantissima nei processi di formazione e conservazione delle diverse identità regionali.

Il radicchio rosso di Treviso, per essere coltivato, venduto e mangiato, ha bisogno della terra, del clima e delle proprietà chimiche dei suoli che troviamo attorno a Treviso (…). Il pomodoro di Pachino, per crescere e essere riconosciuto quale prodotto a indicazione geografica protetta, ha bisogno della terra compresa tra Pachino e Porto Palo di Capo Passero (…). Il parmigiano reggiano, per essere grattugiato sui maccheroni di tutto il mondo, avrebbe bisogno della cossi detta Food valley. Proprio di quella pianura padana che per facilità di irrigazione, tipologia, classe dei terreni (quasi ovunque classe 1, la più fertile) non avrebbe mai dovuto essere trasformata in una “Gru valley”, una tavola disseminata di capannoni, centri commerciali, outlet, raccordi e bretelle autostradali.

Ovviamente, le considerazioni sul valore dell’agricoltura e sulla necessità di fermare il consumo di suoli agricoli per tutelarne la capacità di produrre qualità alimentare devono essere accompagnate da un’ampia riflessione sul tipo di agricoltura e dall’urgente esigenza di cambiare modello produttivo dominante nel settore primario, avviando una transizione dalla monocoltura intensiva, che utilizza fertilizzanti e pesticidi per garantire alte rese (ma provocando un inesorabile peggioramento della qualità dei suoli e un provato inquinamento delle falde), a un’agricoltura più rispettosa della terra stessa, più legata ai territori e al servizio degli abitanti tutti (non solo esseri umani).

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Italia, terra dissestata

Il suolo non cementificato e permeabile svolge un ulteriore compito fondamentale di cui troppo spesso ci ricordiamo solo a disastri avvenuti: la riduzione dei rischi dovuti al dissesto idrogeologico. La terra libera svolge una funzione di regolazione idrica e di assorbimento dell’acqua piovana e di conseguenza contribuisce ad assicurare sicurezza idrogeologica.

Dal dopoguerra ad oggi i governi che si sono succeduti hanno dovuto far fronte ad oltre 61 miliardi di euro di danni causati dal dissesto idrogeologico. Una media di circa 1 miliardo di euro all’anno.

Non esiste regione o provincia d’Italia che non abbia regalato alla storia iconografica del Bel Paese immagini drammatiche di alluvioni, esondazioni, frane, smottamenti, sfollati, imprenditori disperati per la perdita del capannone, comunità intere isolate a causa dei fenomeni dovuti al dissesto idrogeologico.

Ormai è assodato e confermato da tutti gli esperti: il dissesto idrogeologico vede tra le sue concause il fenomeno dell’impermeabilizzazione dei suoli. (…).

Dal rapporto sul dissesto idrogeologico redatto da Ance e Cresme nel 2012, i comuni a elevata criticità idrogeologica sono 6.631, l’89,1% del totale, per una popolazione potenzialmente a rischio pari a 5,8 milioni di persone. (…).

Numeri da capogiro, che potrebbero essere premesse per un piano nazionale di risanamento e di piccole opere di cura del dissesto che, proprio nei momenti di crisi dell’edilizia come quello che stiamo attraversando (…), potrebbero svolgere una funzione anticiclica, attutendo la caduta verticale degli addetti (…) e accompagnando un piano generale di riconversione dell’edilizia.

Invece, a fronte di questa costante minaccia che ogni anno produce disperazione e lutti, nell’ultima legge di stabilità presentata dal governo Letta – per ironia della sorte solo poche ore prima della tremenda alluvione che ah colpito Olbia e il Medio Campidano, nell’autunno 2013 – erano stanziati solo 30 milioni di euro per la prevenzione del dissesto.

61 miliardi di euro di danni provocati dal dissesto idrogeologico in poco più di 60 anni e solo 30 milioni di euro per prevenire i danni del dissesto idrogeologico stesso. (…).

Ridurre l’impermeabilizzazione dei suoli, porre rimedio alle criticità che incombono, come frane in bilico su interi paesi e frazioni, fermare le edificazioni in aree alluvionali, sembrerebbero decisioni ovvie. Eppure ancora oggi (…) sono numerosissimi i casi denunciati (…) di edificazioni (realizzate o programmate) in aree a rischio di dissesto (…) o le proposte di condono mascherato che si infilano di soppiatto come emendamenti a proposte di legge che trattano di tutt’altro.

Non abbiamo carenza di normativa. Abbiamo una legislazione sufficientemente chiara che vieta l’edificazione in aree a rischio. (…). Ma l’Italia, purtroppo, è il Paese dell’abusivismo edilizio e delle deroghe. (…).

Potremmo anche pubblicarlo su Wikipedia: l’Italia è depositaria assoluta dei diritti di copyright per le parole “condono edilizio”.

1985, 1994, 2003. Negli ultimi tre decenni, ogni nove anni si è aperta la finestra per regolarizzare le norme stock di case abusive. Milioni di metri cubi, non sempre riversati per necessità, hanno invaso le campagne dell’agro romano, della Campania felix, del Mezzogiorno. Anche in questo caso, però, non si deve commettere l’errore di considerare il Sud l’unica realtà “viziosa”. Certo, nel Meridione la casa abusiva è quasi un genere architettonico inserito nel paesaggio degradato (la casa incompiuta, senza intonaco e con le cosiddette “chiamate” per salire su di un piano…). Ma alle oltre 150mila unità abitative censite in Sicilia dall’Agenzia del territorio (dati 2012) rispondono le 85mila unità abusive in Piemonte, le 70mila in Emilia Romagna e le 58mila in Lombardia.

L’abusivismo edilizio è solo la punta dell’iceberg. L’effetto più evidente di una tendenza ad edificare che ha permeato la cultura stessa degli italiani, a causa dell’attitudine della politica a vedere nell’edilizia l’unico modo per mettersi in movimento.

Un’attitudine che, ad esempio, solo pochi giorni prima dell’alluvione che ha colpito Genova nel 2011 portava nelle stanze della politica ligure un dibattito beffardo: perché non ridurre i metri di distanza dai corsi d’acqua oltre i quali è vietato edificare? Ridurre le distanze ai fini di rilanciare il mattone. (…).

Tornando più propriamente al dissesto, sempre l’alluvione di Genova ci mostra, grazie alle carte processuali, guano sia importante intervenire nella prevenzione con opere pubbliche molto più utili del Tav in Val di Susa e del Ponte sullo Stretto. Secondo i periti consulenti della procura di Genova, l’alluvione che ha causato sei morti non avrebbe ucciso nessuno se fosse stato completato il deviatore del Fereggiano, il torrente esondato insieme al Bisagno. Gli stessi periti tra l’altro hanno affermato che l’impermeabilizzazione di numerose zone della città di Genova è stata una causa determinante del disastro avvenuto.

Ecco perché dovremmo sempre tenere alta la guardia e pretendere quegli interventi di prevenzione che, siccome invisibili e poco produttivi di consenso, il partito del cemento ignora, per inseguire invece gli oneri di urbanizzazione e gli affari facili grazie alla svendita del territorio amministrato. Ecco perché sarebbe davvero ora di decidersi a fischiare tutti i dirigenti del partito del cemento (siano essi di destra, di sinistra, di centro) quando si presentano con ipocrite facce contrite ai funerali delle vittime del dissesto idrogeologico. (…).

* Con questa recensione, Claudia Fanti, infaticabile redattrice di Adista, ha aderito alla campagna Ribellarsi facendo. “Complimenti per il vostro lavoro!”, scrive Claudia.

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