Ritorno alla civiltà contadina, è possibile?

Produrre solo ciò che è necessario. Un ritorno alla civiltà contadina è possibile? Se lo chiede uno dei nostri lettori, Nunzio Di Pillo.

di Nunzio Di Pillo –

agricoltura
“Un contadino è prima di tutto un uomo libero”

Chi è un contadino? Prima di tutto è un uomo libero (il vento e la pioggia possono entrare nella mia casa, ma non il re d’Inghilterra).

Credo che in tutta la cultura dei popoli che noi abbiamo definito ‘primitivi’ l’uomo è libero.

Libero all’interno della sua cultura, che è nata con lui e si trasmette attraverso la sua filogenesi (il meccanismo di trasferimento dei caratteri specifici attraverso le generazioni). Tutte le specie di animali gregari hanno questo patrimonio, indispensabile per la sopravvivenza e la stabilità del branco dentro il quale ciascun individuo trova la sua collocazione gerarchica e il suo ruolo senza avvertire questo come una costrizione.

Questo concetto appare chiaro dalla lettura di alcuni testi di Konrad Lorenz, che la nostra cultura dominante illuminista e sostanzialmente creazionista, ha accuratamente marginalizzato.

Per quel poco che ho potuto osservare, questo carattere è comune a tutte le culture dei gruppi etnici ancora non completamente contaminate: dagli indiani del Nord America a quelli che sopravvivono nella foresta primaria dell’America Latina, o agli aborigeni del Kalahari e dell’Australia.

In un certo modo, penso, questa stessa qualità della nostra specie ha trovato il modo di sopravvivere anche all’interno della società contadina nell’area geografica in cui si è sviluppata la cultura occidentale durante gli ultimi millenni. Essa ha trovato il suo spazio di sopravvivenza nel volgo rurale, almeno laddove non è stato impedito dal latifondo, che ha ridotto queste masse popolari al livello di salariati precari, come è stato ad esempio nel mezzogiorno italiano.

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La figura più emblematica del contadino ha potuto sopravvivere sino alla fine della seconda guerra mondiale

Dove, invece, i possessori delle terre hanno preferito frammentarle ed affidarle alla responsabilità del coltivatore (ad esempio in enfiteusi, mezzadria, o anche affitto) lì è nata la figura più emblematica del contadino, che ha potuto sopravvivere sino alla fine della seconda guerra mondiale.

Questa forma di gestione della terra ha già le caratteristiche di un’impresa perché, pur rimanendo sostanzialmente fuori dall’economia di scambio, è basata sui meccanismi di un’impresa dove il rischio dell’esito produttivo delle attività svolte è a carico del capo famiglia. Egli è libero di fare le scelte di impiego delle risorse, ma è obbligato a fare fronte agli impegni sociali ed economici della famiglia, deve anche imporre al nucleo familiare le scelte di gestione delle risorse disponibili (comprese quelle umane).

All’interno di questo sistema, le regole di comportamento tra i singoli individui sono dettate e sostenute, in larga misura, da pulsioni filogenetiche universalmente riconosciute, non costituiscono coercizione ma sono percepite da tutti come un’esigenza etica oggettiva da soddisfare.

La forma più evoluta di questa società si è realizzata attorno al bacino del mediterraneo, dove le condizioni naturali climatiche e pedologiche hanno consentito lo sviluppo di un’impresa familiare molto articolata che comprendeva molteplici attività produttive, non solo agricole, ma che si estendevano a quelle artigianali come falegnameria, edilizia, trasformazione dei prodotti agricoli (come caseificazione, fermentazione, ecc.) e persino culturali come musica, poesia, magia. Tutto questo largamente sostenuto dalla consuetudine del lavoro collettivo di scambio e aiuto reciproco.

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Nella civiltà contadina le regole di comportamento tra i singoli individui sono percepite da tutti come un’esigenza etica oggettiva da soddisfare

Questo mondo familiare è efficacemente integrato nei piccoli nuclei sociali dei villaggi, ciascuno caratterizzato da una sua propria individualità (che arrivava sino alla formazione di un proprio ‘dialetto’ che differiva anche su distanze brevissime di qualche chilometro).

In questa entità locale le famiglie trovano tutti i riferimenti culturali ed i servizi dei quali possono avere bisogno, come l’autorità politica locale, il parroco, lo speziale, il fabbro, ecc. Questo faceva sì che, salvo eventi straordinari o catastrofici, molti potevano nascere e morire nello stesso luogo, serenamente, senza essere afflitti da bisogni artificiali.

In molti altri luoghi della terra lo stesso meccanismo primario accennato all’inizio, che assicurava la libertà di ogni individuo presso i ‘primitivi’, è sopravvissuto nelle varie società rurali in maniere diverse a seconda delle condizioni ambientali locali.

Ad esempio, come riferiscono alcune ricerche sociali canadesi, gli epigoni indiani a sud della baia di Hudson, hanno potuto conservare (sino agli anni 70 del secolo scorso) la loro identità sociale ed il loro sistema di vita in una società itinerante con cicli annuali attraverso le gelide e immense foreste della regione, organizzati in nuclei familiari retti da un’etica largamente sovrapponibile a quella della nostra società contadina. Questo anche se la loro economia era basata solo sulla caccia e sullo scambio di pelli di animali selvatici con una società francese (la Compagnie de la Baye) sorta nel XVIII secolo, credo ancora esistente. Un piccolo studio su questo tema ha per titolo Ma femme, ma hache et mon couteau croche (Mia moglie, la mia ascia ed il mio coltello curvo).

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È possibile tornare ad una civiltà in cui si produce solo ciò che è veramente necessario?

Tutto questo discorso ha come scopo di chiarire il concetto di base dal quale trae origine la mia maniacale pretesa di ritorno alla civiltà contadina. Per dire che è inutile sognare di una vita bucolica e frugale, che non è mai esistita, come rifiuto della nostra attuale società catastrofica; quello che è passato è passato per sempre.

Quello che potrebbe forse essere ancora possibile è di riferirsi a quella cultura per capire quanto grave e aberrante è la nostra concezione del bisogno e quanto assurda sia l’idea di raggiungere il benessere aumentando il numero dei bisogni. Quando l’unica via è invece quella di eliminarli.

Questo è lo scopo essenziale della mia iniziativa: far nascere un’attività che, pur essendo economicamente sostenibile, non miri solo al profitto, ma riconduca i partecipanti a produrre solo quello che era considerato come necessario per soddisfare i bisogni naturali e non per raggiungere un fantomatico benessere.

Un’ultima cosa: sappiate che quando, da ragazzo, ho avuto la fortuna di vedere da vicino la realtà della vita rurale (solo cinquanta anni fa), nessuno ancora aveva avuto la percezione del ‘bisogno’ della carta igienica e pensate a quanti chilometri quadrati di foresta consumiamo oggi, ogni anno, per soddisfarlo.

Il Cambiamento

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