Ontologie della musica

41084_138526906188579_130706153637321_162491_3168219_nE’ sorprendente quanto sia diffusa la credenza che la musica esista o sia esistita prima di essere scoperta da compositore, esecutori e persino matematici.
Ontologie in plurale per indicare non tanto la pluralità delle diverse musiche nel mondo quanto l’esistenza di molteplici ontologie musicale che esistono sia a livello individuale e locale sia su quello globale. Si tenta pertanto di disegnare una mappa sia delle esperienze individuale sia dei paesaggi culturali di musiche “del mondo”.
La “condizione metafisica” della musica con cui noi occidentali abbiamo più familiarità è quella di musica come oggetto. In quanto tale essa assume tratti, forme, proprietà, con le rispettive denominazioni che attestano uno statuto oggettivo. D’altra parte, la musica in occidente è percepita anche processo. Essendo i processi delle condizioni fluide, in divenire, essi non assumono mai uno statuto pienamente oggettivo. La musica in quanto processo è pertanto svincolata e aperta e i nomi ad essa attribuiti sono inevitabilmente incompleti.
Bohlman aggiunge a queste due condizioni, da lui individuate per l’appunto come tipicamente occidentali, due altre che attenuano le linee di demarcazione tra l’Occidente e il resto del mondo.
Embeddedness: (non facile da tradurre: è la condizione di ciò che è integrato, incluso, anche radicato) che è la capacità della musica di integrarsi in altre attività fino ad essere inseparabile da esse. In molti casi ciò significa che l’elemento musicale non viene distinto con un nome o un riferimento specifico. L’integrazione o ‘inclusività’ può essere sistemica, come la ‘musicalità’ di una lingua, del linguaggio tout court, o del mito. Essa può essere arbitraria, quando ai suoni ambientali si attribuiscono qualità musicali.
Adumbration: Adombramento: quando la musica di per sé non è presente, oppure la sua presenza è negata o vietata (in certe circostanze di certe culture e religioni: l’avvertimento contro l’aspetto dionisiaco della musica in Platone; il divieto ebraico degli strumenti musicali nelle sinagoghe dopo la distruzione del tempio; la negazione  nel Corano di qualsiasi qualità musicale della recitazione). Una zona d’ombra attraverso la quale si intravedono altre modalità di concettualizzare la musica.
L’identità musicale collettiva si sviluppa all’interno del gruppo e diventa sia un mezzo di riconoscimento e comunicazione tra i suoi membri, sia uno strumento efficace per intensificare la specializzazione e incrementare il valore del gruppo stesso fino a definirne i contorni e i confini. Ad esempio i membri della casta dei costruttori di tamburi nel sud Hindu dell’India, nominati pariah in Tamil. Loro usano la propria competenza musicale come un mezzo per sovvertire la gerarchia delle caste. Non potendo esibirsi in pubblico con certi tipi di musica di casta alta (ad esempio il vina), i pariah  puntano sulla specificità e quindi esclusività del proprio patrimonio musicale per dar valore e definire la propria appartenenza di casta.
E’ sorprendente quanto sia diffusa la credenza che la musica esista o sia esistita prima di essere scoperta da compositore, esecutori e persino matematici. In Occidente ci sono due tipologie di teorie ontologiche circa l’atto creativo in musica.
La prima concerne prevalentemente i materiali della musica e di conseguenza gli atti che questi subiscono dalla mano di un agente creativo: compositore, un cantore, l’aedo omerico, il gulsar dei Balcani che combina formule musicali per costruirne un racconto epico.
La seconda concerne il fenomeno delle opere musicali e le dinamiche attraverso le quali esse assumono un’identità specifica. In Occidente questo avviene prevalentemente attraverso lanotazione (anticamente si usava una notazione di origine greca che utilizzava le lettere dell’alfabeto. Tale notazione è ancora in uso nei paesi di lingua inglese: A = la · B = si · C = do · D = re · E = mi · F = fa · G = sol.)
Ma esistono casi diversi: certe comunità eschimese della parte nord-ovest dell’America del nord ritengono che l’universo consiste di un numero finito di canzoni che gli individui ricevono ed eseguono ma poi rilasciano di nuovo dentro l’infinito repertorio delimitato dall’universo. Nella musica classica del sud dell’India l’identità del compositore è più rilevante, ma esistono forme di composizioni vocali, ad esempio il kriti che consiste di due frasi relazionate tra loro (asthayi e antara) che vengono continuamente combinate ed elaborate in opere diverse attraverso un processo di improvvisazione.
Musica in Natura
Il nesso tra musica e natura è presente in un modo o l’altro nella maggior parte delle culture. Ad un estremo del continuum troviamo la credenza che la musica esiste nella natura. All’altro estremo la musica aspira verso la natura, ambisce ad emularla.
1) Il primo estremo genera una “retorica delle metafore” utile per la creazione di un “sistema di rappresentazione” di cui l’emblema più ricorrente è il canto degli uccelli rappresentato dalla voce naturale (i Kauli di Papua della Nuova Guinea,i giochi vocali chiamati kattajjait degli Inuit del circuito polare tra Canada e Greenland) o da strumenti musicali in composizioni scritte. In questi casi la musica suona come la natura.
2) La seconda tipologia riconosce i confini tra natura e musica, confini che le procedure compositive e performative possono sublimare stilizzando la rappresentazione senza con ciò cancellarne le tracce.
Presso i Wagogo dell’Africa sud-orientale, ad esempio, delle performances musicali collettive possono rappresentare interi paesaggi sonori della natura delineando un parallelo tra società e natura.
La musica come Scienza
«”Musica est scientia bene modulandi”  secondo S. Agostino. Pronunciamenti sulla capacità della musica di essere scienza – di provvedere un modo della conoscenza – sono spesso le prime tracce di ontologie della musica. La cosa importante è che la musica è [effettivamente] un veicolo che ci aiuta a conoscere. Ciò che la musica ci fa conoscere diverge drammaticamente secondo le operazioni in cui essa è integrata. Più tali operazioni scientifiche sono agite sulla musica, e più emerge una sua identità-di-sé [auto-identità] (Musik an sich, musica in e per se stessa); tuttavia, paradossalmente, quella auto-identità ha sempre meno a che fare con la prassi. Tuttavia, la scissione ontologica tra teoria scientifica e prassi non si espande senza fine. Al contrario, esiste una tensione tra scienza e prassi, che rende necessario utilizzare l’una come una fonte dell’altra. Pratiche moderne della musica araba manifestano ancora delle somiglianze con la teoria modale dell’XI secolo dimostrando che la prassi contemporanea non ha abbandonato la scienza come un modalità del sapere musicale.»
La musica come linguaggio
«Perché la musica dovrebbe acquisire l’universalità egemonica che il termine tedesco die Musik (‘la musica’) [‘the music’] le assegna? Perché dovrebbe possedere la presenza relativistica che il termine etnomusicologico “musiche” (‘musics’) le accorda? Strategie nominaliste sono straordinariamente importanti nelle politiche che le ontologie della musica spesso implicano. “La Musica” appartiene a un gruppo privilegiato con specifico statuto educativo ed economico, non meno che le pratiche della musica d’arte nell’India del sud appartengano all’alta casta dei Bramini, o che le pratiche elitarie in Cina apparengano ad un’intelligenzia che deriva il proprio potere dalle teorie sociali di Confucio. Circoscrivere l’ontologia della musica in singolare non solo vende enciclopedie ma procura anche una base di potere imperiale e di controllo intellettuale.
Per mezzo del linguaggio si ottiene dunque un’oggettivazione e un ‘confinamento’ della musica, che sarebbero impossibili con il mezzo dell’esperienza o dell’immaginazione individuale. «L’atto di nominare rende possibile una vasta rete di connessioni.
In realtà, seguendo semplicemente la segnaletica stradale che lo conduce dalla musica immediatamente accessibile all’universo di tutta la musica (tutte le musiche), l’individuo è potenzialmente connesso a ciascuno e a tutti i fenomeni musicali.»
La Voce di Dio
«Ne La vita di Maometto di Ibn Ishaq [704 – 767] incontriamo una delle più profonde ed eloquenti rivelazioni ontologiche della voce di Dio attraverso la recitazione e le pratiche musicali.» Egli racconta l’apparizione nel sogno dell’angelo Gabriele che insorge Maometto con l’imperativo “Leggi!”, alla domanda del Profeta “che cosa devo leggere?” la risposta insistente è sempre la stessa: “Leggi!” :
Leggi! In nome del tuo Signore che ha creato, ha creato l’uomo da un’aderenza.
Leggi, ché il tuo Signore è il Generosissimo, Colui che ha insegnato mediante il càlamo, che ha insegnato all’uomo quello che non sapeva. (Il Corano, Sura 96: 1-5)
Maometto obbedisce, e quando si sveglia le parole recitate sono “come se fossero scritte nel mio cuore.”
«La rivelazione della voce di Dio è diretta, mediata soltanto dal recipiente del corpo che riceve e poi recita la voce così come l’ha ricevuta. Il concetto dell’umano come recipiente per la voce di Dio provvede un momento ontologico comune, che è in realtà il notevole accoppiamento di Dio e gli uomini attraverso la voce e la musica. La dipendenza [tra rivelazione e recitazione] è realizzata a sua volta attraverso una traiettoria che ha inizio con Dio e culmina nella recitazione di una voce – nel caso dell’Islam la recitazione (qira’ah) delle parole reificate come testo sempre già in performance, il Corano. Il sacro diventa quotidiano attraverso la performance musicale.»
Ontologie che iniziano con il quotidiano generano diverse traiettorie di performance musicale che aspirano, per così dire, al sacro. La musica eleva il quotidiano modulando la voce della prassi quotidiana in una prassi sacra. Nel quotidiano questa funzione di trasformazione della voce umana in una voce divina è ottenuta dal rituale [rito].» Ciò avviene ad esempio nei pellegrinaggi, nelle processioni religiose.
Nelle note / Fuori dalle note
Bohlman parte dal presupposto che «La notazione musicale serve come riconoscimento del fatto che la musica non può essere adeguatamente scritta. [Perché] Qualcosa sparisce o si modifica nel corso di una tradizione e di una performance orale, e i suoni che le note rappresentano recuperano il più possibile di quel suono. Le note sono le tracce di molte esecuzioni.»
Nel Tempo / Fuori dal Tempo
In questo paragrafo (che contiene alcuni punti oscuri) Bohlman affronta il mega-concetto di musica e TEMPO.
Tocca rapidamente questioni fondamentali quali il silenzio (sarebbe questo il “outside time”); le scansioni temporali della vita dell’uomo (stagioni, epoche, periodi, orari) e le metafore che ne conseguono; la memoria e la capacità della musica, per virtù della sua «presenza ontologica nel e fuori del tempo», di attraversare i confini tra narrative dell’esperienza e quelle simboliche, e di integrarsi «in processi cognitivi e spirituali della conoscenza di esperienze e mondi altrui.»
Il paragrafo è interessante soprattutto per i riferimenti che fa a esperienze concrete fuori dal canone della musica occidentale:
1) «Nella musica giapponese la nozione del vuoto, nota come ma, è estremamente importante. Ma è il silenzio tra suoni, ma la sua ontologia non è determinata dai suoni che lo circondano. Diversamente dal silenzio di una pausa nella musica occidentale, ma non inizia quando finisce il suono che lo precede e non cessa quando il suono ricomincia. Ma è percepito e ponderato in quanto tale; esso si definisce per mezzo della propria vacuità, della propria ontologica esistenza fuori del tempo.»
2) «L’atto di ricordare nei rituali Sufi, denominati zikr (memoria) porta il credente vicino a Dio sia spiritualmente che fisicamente attraverso la ripetizione del nome di Allah e dei principali epiteti che richiamano la sua essenza.»
3) «La memoria è fondamentale per le connessioni temporali verso il passato che gli Aborigeni dell’Australia vedono come attributo della musica – connessioni che esemplificano la memoria del passato ancestrale attraverso delle time-line per mezzo delle quali il passato diventa presente, o più precisamente il mito si trasforma da uno stato senza tempo in una condizione [reale] delimitata dal canto.»
4) La capacità del canto epico di «negoziare tra i mondi del mito e della storia» si esemplifica nei poemi omerici, le epiche Hindu così come si presentano nella musica classica dell’India del sud e nel wayang giavanese.
Dalla bellezza musicale /Alla normalità musicale
In questo paragrafo Bohlman affronta il concetto del “bello musicale”. Da un punto di vista epistemologico l’argomentazione iniziale risulta  assai problematica perché vi manca una chiara distinzione tra il bello in musica e il con quello del bello nella sua accezione generale nell’estetica occidentale. Emergono tuttavia due punti importanti:
1) La frizione tra l’esigenza – tutta occidentale – di bellezza del costrutto musicale, e l’aspetto funzionale della musica. Musiche non-occidentali che hanno primariamente una funzione sociale e rituale.
«La diffusa natura non-rimarcabile della musica risulta direttamente dalla sua condizione di ontologica inclusione: la musica è talmente partecipe ad altre pratiche sociali, che non c’è bisogno di separarla da esse o di attribuirle delle qualità particolari.»  Ecco perché in molte culture la musica non ha un nome specifico. Persino nella musica dei gamelan (nota per la sua ‘artisticità’) non c’è una tradizione storica di uditori che si staccano da altre attività per ascoltare la musica attentamente. La musica giavanese (come tanta altra musica non occidentale) trae la propria efficacia dall’accompagnamento di attività quali la narrazione, il dramma, e altre pratiche rituali e sociali della corte e del villaggio.
Suono Autentico / Suono Registrato
Bohlman parte dall’indiscutibile premessa che «Le tecnologie di riproduzione del suono confondono radicalmente le ontologie della musica.»
Nel Corpo / Lontano dal Corpo
L’allontanamento del e dal corpo umano messo in atto dalle moderne tecnologie di riproduzione è, secondo la premessa non priva di difficoltà di Bohlman, un’espressione di paure profonde che vanno al di là delle dinamiche di controllo e di manipolazione che l’industria musicale permette e incoraggia.
Il coinvolgimento del corpo nella produzione di musica presentava un problema per le religioni e il rimedio è spesso stato una divisione di categorie e di ruoli. [Platone distingue tra la musica virtuosa rappresentata dalla lira, e quella insidiosa rappresentata dall’aulos]. Quando l’Islam ha cominciato a tenere la musica in sospetto, si è creata la categoria di musica strumentale [pura rispetto a quella vocale – carnale e sensuale] indicata con il termine musiqa  o musiqi preso in prestito al greco / latino. I musicisti erano spesso ‘altri’,  provenienti dalle minoranze protette degli ebrei e dei cristiani. [L’affidamento delle funzioni musicali a caste separate è presente già nella Bibbia ebraica; i Leviti che erano addetti alla musica fin dal tempio provvisorio durante la permanenza del popolo d’Israele nel deserto]. «Sentire e ascoltare (sama) erano fisicamente separati dal suonare e dall’eseguire, risolvendo così, almeno parzialmente, la tensione che risulta dalla presenza ontologica del corpo nella musica.»
Le ontologie della musica occupano un ambito filosofico importante non solo per coloro che pensano sulla musica. Esse risiedono nella dimensione fisica e quotidiana; in quella del bello e dello spirituale; nelle Storie passate e nei miti sul futuro. Sono sparse attraverso l’intero spettor dell’esperienza umana. Pensare la musica e vivendola sono pratiche umane basilari.
I concetti ontologici esposti in questo saggio non sono isolati in sé né lo sono uno dall’altro. Mentre alcuni di questi concetti possano essere predominanti in certe culture, o persino fondamentali per i costrutti di una determinata cultura rispetto a che cos’è musica e che cosa non lo è, essi non dividono il mondo in differenti regioni. Le ontologie della musica in Occidente non sono più o meno numerose di quelle, create dall’Occidente, di ‘altre’ culture e popoli. Le tecnologie influenzano virtualmente tutte queste ontologie, e molte di quelle che sono state qui discusse hanno determinato il modo in cui le tecnologie hanno dato forma al modo in cui gli uomini immagina la musica. Musica come oggetto e musica come processo possono suggerire condizioni che descrivono la musica in diversi stadi di produzione e riproduzione ma, nonostante ciò, oggetto e processo dipendono da entrambe. L’inclusione della musica nei contesti di tempo e di spazio, nella storia e nella cultura, generano inoltre le condizioni di adombramento: il nesso della musica con pratiche culturali in cui essa non partecipa direttamente. L’interrelazione di queste condizioni metafisiche è una metonimia suggestiva delle ontologie della musica.
IN conclusione, ritorno al plurale che ha servito come punto di partenza per questo saggio. Se si intende usare ‘ontologie’ in plurale, non si dovrebbe fare la stessa cosa con ‘musiche’? Se mantengo ‘musica’ in singolare, ciò non significa forse che sto capitolando la premessa ontologica dell’Occidente? Sì e no. Sì, perché ontologie musicali non si occupano di una singola nozione di musica. No, perché la nozione di musica è internamente complessa e multipla. I processi che conducono all’immaginazione e alla costruzione di un’ontologia musicale mirano ad un’ontologia che esprima e risieda in qualche intendimento di auto-identità. Lungi dalla negazione di altre musiche e altre ontologie, tale identità dipende da esse. Un’ontologia individuale della musica disegna quindi il paesaggio musicale globale da prospettive locali, e immagina che cosa sia la musica secondo le condizioni che determinano quelle prospettive. Mentre dipende da una distinzione tra il sé e l’altro, ogni ontologia offusca tale distinzione; il sé è inteso come intrecciato con un altro.
Ontologicamente, la musica è immaginata e concepita più tramite l’atto di ‘ripensare’ che tramite quello di ‘pensare’. ‘Pensare la musica’ privilegia  una modalità cognitiva di intendere la musica; essa procede con la certezza che il sé, in ultima analisi, è conoscibile. ‘Ripensare la musica’ procede soltanto nervosamente, senza la convinzione che qualsiasi processo ontologico sia in fondo conoscibile; noi ripensiamo la musica credendo che qualcosa sia stato perso nel giro precedente. ‘Ripensare la musica’ mina il ‘pensare la musica’ e va oltre. E ancora più importane:  ripensare la musica ci chiede di situare la nostra comprensione della musica in altre esperienze del fare musica, nelle pratiche umane di dare vita alla musica attraverso il rituale e la fede, l’azione e l’immaginazione, e anche, sì, attraverso il pensiero.»
(Riassunto del saggio di Philip V. Bohlman, Ontologies of Music, in Rethinking Music, ed. N. Cook and M. Everest, Oxfor, Oxford University Press, 2001)
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