Non si impara sui libri, si impara vivendo

Viviamo in un mondo complesso, si suol dire. E la scuola poi: complicazioni su complicazioni! La conoscenza sembra esser proprio un affare difficile, una china lungo cui arrampicarsi, procedendo di astrazione in astrazione. La strada è impervia, tortuosa. Ci si abitua a pensare che la meta sia quasi irraggiungibile, che esser “sapienti” significhi aver la capacità di formulare concetti astrusi, quasi fossimo degli acrobati della mente. Il più bravo compie acrobazie che alla maggior parte non riescono. Per queste acrobazie avrà premi e riconoscimenti, dai genitori, dai professori, avrà l’invidia dei compagni, e un domani, chissà, una bella laurea, un posto di lavoro, un sacco di denaro, l’indipendenza, la libertà di fare quel che più desidera. Oppure, il migliore è colui che sa tante cose, le sue conoscenze spaziano da un settore all’altro, dalla matematica alla fisica, dalla letteratura alla storia, e chi più ne ha più ne metta. Il migliore, insomma, assomiglia tanto al campione dei quiz televisivi: memoria brillante che si trasforma in gettoni d’oro, un gioco di prestigio, un’alchimia dei tempi moderni.Morale della favola: si studia per imparare cose complicate e, possibilmente, impararne tante. C’è un’altra filastrocca che recita così: lo scopo dello studio è il possesso di nozioni, concetti, verità. Conoscere significa impadronirsi di specifiche conoscenze in questo o in quel campo. Il fine, dunque, è l’avere. Ho fatto mio quanto scritto nel libro, lo so ripetere, ergo (in latino “quindi”) conosco. Se le cose stanno così, allora gli antichi Greci erano degli ingenui. Chiaro, noi abbiamo la loro lezione e, in aggiunta, ventisei secoli alle spalle, sappiamo molte più cose. I sapienti erano dei fanciulli ed Apollo un dio primitivo. Pensate, si limitavano a dire: “conosci te stesso”, “diventa quello che sei”, “non superare il tuo limite”. Ripetere queste formuline, oggigiorno, al massimo può servirci a superare la prima interrogazione di filosofia, a far contento il prof, che ci tiene tanto! Considerazione legittima, per carità. Ma… C’è un “ma”, come in tutte le storie che si rispettino. Quelli che chiamiamo “sapienti” non erano affatto ingenui. Altrimenti tante generazioni di uomini e donne non li avrebbero ricordati come tali! Pensate: i padri dei padri dei padri dei padri dei padri e così per altre settantatre volte (un secolo corrisponde, grosso modo, a tre generazioni: basta moltiplicare per ventisei e si arriva al VI secolo a.C.).
Spesso si è portati a ritenere ignoranti coloro che, semplicemente, non la pensano come noi. Sistemi di pensiero alternativi, visioni del mondo e filosofie di vita discordanti non sono misurabili e confrontabili in termini di maggiori o minori quantità di nozioni possedute, di maggiore o minore approssimazione alla verità (a quale “verità” poi?). La differenza non è quantitativa, bensì “qualitativa”. Veramente difficile è imparare a pensare vestendo gli altrui panni, mettendosi al posto dell’ “Altro da sé”. Il nostro modo di considerare il mondo e la vita è soltanto uno degli infiniti modi possibili. Ci sono tante culture diverse nello spazio geografico e nel tempo storico. Non si tratta di imparare altre nozioni, ma di vedere con occhi nuovi, di considerare la stessa cosa da punti di vista inediti. Ad ogni batter di ciglia una rivoluzione! Ma è così, in fondo: la vita è sempre nuova ad ogni istante che passa. Ogni momento è straordinario perché si crea dal nulla e non assomiglia a nessuno di quelli che l’ha preceduto o lo seguirà. È una questione di qualità, è sempre una questione di qualità. La qualità è incommensurabile. Nessun metro, nessun regolo, nessun microscopio può quantificarla. È contemporaneamente una e molteplice. La dolce frenesia che prende allo sbocciare di un nuovo amore non puoi tagliarla, misurarla, dividerla in parti. È qualità allo stato puro. È vera perché la si vive, punto e basta. Si può tentare di esprimerla riconoscendovi significati che un attimo prima non si credeva nemmeno di poter concepire. Eppure è lì. Non si sa da dove viene, né dove andrà a finire. È. (Quanta magia in questo verbo “Essere”!) Se sei d’accordo, proviamo a riconsiderare quanto dicevano gli antichi sapienti. Ti accorgerai che è semplice. Non solo è “semplice” da capire, a duemilaseicento anni di distanza, ma rappresenta un “modo semplice di pensare”, diretto, qualitativo. “Conosci te stesso”. Il nostro sguardo, generalmente, si rivolge verso l’esterno. Le conoscenze, dicevamo, sono considerate comunemente cose di cui “appropriarsi”, quasi si potessero tesaurizzare, rinchiudere in un forziere come monete. Ma dentro di te non ci sono cose da afferrare. Gli stessi pensieri vanno e vengono alla velocità della luce, sono evanescenti. Fermati un attimo. Considera cosa sei. Prova ad esprimere un concetto. Non ci riuscirai. Tu non sei concettualizzabile. Non sei una conoscenza da acquisire e da maneggiare per superare il compito in classe, per far bella figura o per andare all’università. Fermati. Cosa senti? Il respiro che entra ed esce dai polmoni, il cuore che batte, un grumo di sensazioni e sullo sfondo… silenzio. Questo è ciò che si intende per “percezione qualitativa”, conoscenza diretta, vita. Tutta la conoscenza di cui siamo capaci in quanto uomini e donne, a ben guardare, non è altro che vita consapevole d’esser vita, natura in divenire, appetito e percezione, puro movimento. Questa consapevolezza è cruciale: scuola, università, lavoro, riconoscimenti, ecc. sono in funzione di ciò che tu sei, sono in funzione della vita, non sono “la vita”. Qui è in gioco molto di più: il tuo benessere, in senso letterale, “essere bene”, stare bene con te stesso. Allora, forse avrai già compreso che la conoscenza è connessa indistricabilmente con la vita ed è, appunto, una questione di “essere” non di “avere”. Se hai compreso il senso del “conosci te stesso”, puoi rivolgere lo sguardo verso l’esterno, forte di tale consapevolezza. Continuerai semplicemente a vedere oggetti manipolabili, corpi che parlano, libri e quaderni da usare, una realtà complessa da imbrigliare in concetti, nozioni, formule? Oppure, con maggiore coerenza, riconoscerai in tutto ciò che ti circonda la stessa silenziosa vita che hai scoperto in te, che hai scoperto essere te! “Diventa quello che sei”. La conoscenza deve tradursi in un atto di volontà. Non è facile. Occorre superare gli ostacoli posti lungo il cammino dal tuo stesso pregiudizio, primo fra tutti l’attaccamento a quella mentalità di cui ragionavamo all’inizio: la quantità al posto della qualità, l’avere al posto dell’essere, il moderno al posto dell’antico. È necessario vincere il proprio orgoglio, la presunzione che ci sia un’unica ragione e che questa appartenga a te e ai tuoi simili.
Mettersi in discussione, darsi battaglia armati di spirito critico e non demordere mai. Non si diventa quello che si è veramente, senza sofferenza, senza una grande sofferenza. E pochi hanno il coraggio di affrontare questa prova lunga una vita. Nessuno vuole morire. Non basta una vita a preparare alla morte. Lo stesso vale per opinioni, pregiudizi, sentimenti radicati in noi. Non cedono facilmente. E sono nemici astuti. Si tratta, a ben guardare, di quel fascio di energie che comunemente chiamiamo “Io”. Per diventare quello che sei devi buttare a mare questo benedetto “Io”, mettere a tacere la sua voce impertinente! E, per giunta, devi farlo con dolcezza! “Non superare il tuo limite”. Essere sé stessi significa accettarsi per quello che si è, accettare i propri limiti. È questa la chiave della cosiddetta “felicità” (in greco eudaimonìa, eu-dàimon, demone benevolo, ossia l’esser posseduto da un buon demone). Il contrario del “giusto mezzo” è la hýbris (greco “superbia”, “tracotanza”), l’andare oltre i limiti imposti dalla natura a ciascun essere. È come guidare un’automobile: una vita ben vissuta richiede consapevolezza dei propri mezzi e molta prudenza. Semplicemente la cosa giusta al momento giusto. È importante ricordarsi di quel “nulla” da cui ogni attimo emerge per poi farvi ritorno, di quel silenzio infinito che si scorge sul fondo di sé stessi e che è, in ultima istanza, il vero Sé. In ogni fenomeno occorre onorare la dimensione del mistero, quel qualcosa di inconcepibile, inesprimibile, intangibile che tutto avvolge e di tutto rappresenta la vera ragione. È il “divino” a dar senso all’umano. Volersi sostituire al divino significa andare oltre il limite, fare del male a sé stessi, punirsi da soli. Tutto qui. Tante parole messe in fila una dopo l’altra per esprimere un pensiero “semplice”. Ma semplice non vuol dire “facile”. Conoscere è imparare ad essere davvero quel che si è. È semplice perché è immediato, alla portata di tutti. Gli animali, per esempio, ci riescono senza troppo sforzo. Per noi, spesso, è più facile essere complicati che semplici. Senza sforzo, senza disciplina, senza passione, la semplicità rimane soltanto un sogno che svapora col trascolorare della giovinezza nell’età adulta. Questo, per gli antichi, è il vero senso della conoscenza. La conoscenza non è separata dalla vita, anzi non è separata proprio da niente. È qualità semplice, universale, onnipresente ed onnicomprensiva. Non si impara sui libri, si impara vivendo.

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