Non ci si può donare quando ci si è sprecati

c6adc95d2b_4959815_medOggi è abbastanza di moda parlare di dono, di donarsi, di fare dono di sé alla persona amata, e altre simili sdolcinatezze; tuttavia, se si vuole che il discorso relativo all’atto del donarsi acquisti un minimo di spessore e di serietà, è assolutamente necessario fare preliminarmente un poco di chiarezza.

E allora, punto primo: ci si può donare solo quando si possiede, intatta, la propria freschezza, la propria verità interiore, la fedeltà intransigente alla propria vocazione; se ci si è buttati via, magari inseguendo immagini vane e disordinate di felicità, non si ha assolutamente nulla da donare: sarebbe come donare agli altri uno straccio vecchio e bisunto, del tutto inservibile perfino per raccogliere la sporcizia. Il dono di sé possiede un valore quando è il dono di una cosa preziosa: la nostra persona; e una cosa è preziosa quando è stata preservata e custodita nel migliore dei modi, non quando la si è lasciata avariare per trascuratezza e irresponsabilità.

E, punto secondo: il dono più grande che si possa fare all’altro è la parola, quando essa è necessaria; il silenzio, quando è necessario il silenzio. Questo è un concetto difficile da digerire, in un tempo ciarliero come il nostro, quando tutti sono abituati a parlare e straparlare di tutto e di più. Abbiamo una tale paura del silenzio che baratteremmo anche le parole più stupide e inutili, pur di tenerlo lontano. Eppure è nel silenzio che la verità si rivela, non nella parola: la parola è sempre propedeutica al silenzio, tempo della verità. Perché la verità è rivelazione interiore, e la rivelazione non scaturisce dal nulla, ma dalla contemplazione e, dunque di silenzio. Niente silenzio, niente contemplazione; niente contemplazione, niente rivelazione; niente rivelazione, nessuna verità, ma solo parole e parole, torrenti, fiumi di parole, del tutto prive di significato.

«Non ci si può donare quando ci si è sprecati». Queste parole folgoranti sono state scritte da una grande mistica francese contemporanea, Madeleine Delbrel (1904-1964); la quale, non  a caso, era anche una poetessa: e in esse si sente, appunto, il soffio potente, quasi il graffio, della poesia, che non è frivola evasione nel Bosco Parrasio, come certuni continuano a credere, ma verità calata nella vita, magari con ruvida franchezza.

Vale la pena di riportare un po’ più per esteso il discorso di cui fa parte l’affermazione sopra citata (da: M. Delbrel,  «La solitudine», Roma, AVE, 1966; cit. in: Raffaele Terranova, «L’uomo. Luigi Martin», in «Il Carmelo oggi», Monza, agosto-settembre 2008, p. 32):

 

«Il silenzio è carità e verità. Esso risponde a colui che chiede qualcosa, ma non dà che parole cariche di vita. Il silenzio, come tutti gli impegni della vita, ci induce al dono di noi stessi e non ad un’avarizia mascherata. Ma esso ci tiene uniti per mezzo di questo dono. Non ci si può donare quando ci si è sprecati. Le vane parole di cui rivestiamo i nostri pensieri sono un continuo sperpero di noi stessi. VI SARÀ CHIESTO CONTO DI OGNI PAROLA. Di tutte quelle che bisognava dire e che la nostra avarizia ha frenato. Di tutte quelle che bisognava tacere e che la nostra prodigalità avrà seminato ai quattro venti della nostra fantasia o dei nostri nervi.»

 

«Vi sarà chiesto conto di ogni parola; di quelle che avete pronunciato a sproposito e di quelle che avete taciuto, quando erano necessarie»: si poteva dire di più, e meglio, con una tale densità ed essenzialità di contenuto spirituale? La parola è dono: ma, per essere tale, deve essere usata con saggezza e con senso della misura: non può essere sprecata, dispersa, inflazionata. Quando non è adeguata ad esprimere un contenuto di verità, meglio tacere e lasciare che parlino i fatti; meglio tacere e lasciare che parli il silenzio. Il silenzio parla attraverso i fatti, più che attraverso la parola: ci sono parole che non possono essere dette, ma solo alluse, o taciute. Vi è un silenzio ottuso, inerte, e vi è un silenzio carico di significato e di comunicazione.

Dovremmo riscoprire la preziosa povertà della parola e l’infinita ricchezza del silenzio. In un mondo che parla troppo, questo è l’unico modo di restituire dignità e pregnanza al linguaggio, ormai abusato da un eccesso di falsa comunicazione verbale.

Ma che vuol dire, esattamente sprecarsi? Che cosa vuol dire che, quando ci si è sprecati, non ci si può donare, perché non si possiede più nulla di valore che possa divenire oggetto di offerta significativa nei confronti dell’altro?

Noi siamo troppo abituati a pensare che si possa fare dono di qualcosa, solo perché abbiamo dimenticato la preziosità e la serietà del dono: del dono vero, non del dono interessato, non del dono che obbliga, non del dono che costringe l’altro a ricambiare, o che lo imprigiona, che lo ricatta, che lo soffoca. Il dono autentico è qualcosa di prezioso e di serio: è il simbolo di ciò che noi proviamo per l’altro, la manifestazione del nostro affetto per lui. Donare degli oggetti, per quanto costosi, è la cosa più facile del mondo, ma anche la meno preziosa e la meno significativa: di fatto, rischia di diventare un gesto di “routine”, opportunamente scandito dai ritmi del calendario consumista: festa di onomastico, festa della mamma o del papà, festa della donna; per non parlare delle feste religiose trasformate in sagre del consumo e profanate nella loro intima essenza, nel loro vero significato di purezza e di offerta.

Ora, se donare qualcosa è una faccenda terribilmente seria e preziosa, perché unica e irripetibile, donare se stessi è la cosa più seria e più preziosa che si possa immaginare, perché è la più unica e la più irripetibile in assoluto: infinitamente seria e assolutamente irripetibile. Però, per arrivare a comprendere questo, bisogna rendersi conto che si ha un preciso dovere verso se stessi: quello di non svendersi mai, quello di non prostituirsi in alcun modo, né materialmente, né spiritualmente; perché ciascun essere umano possiede una dignità intrinseca, che si custodisce e si preserva mediante la consapevolezza del rispetto dovuto a se stessi.

Questo è un concetto fondamentale. Noi non siamo importanti per quello che facciamo, ma perché esistiamo; però il nostro valore di persone aumenta o diminuisce, fino ad annullarsi, quando gettiamo via la nostra parte più nobile e preziosa, per farci simili alle bestie irragionevoli. La persona che coltiva intensamente la propria parte spirituale e che si sforza di aumentare la propria consapevolezza diviene più bella, più radiosa, più splendente: realizza in se stessa la propria vocazione, che è vocazione al trascendimento, tensione costante verso l’Assoluto.

Abituati come siamo a dare un prezzo a tutte le cose, ci siamo dimenticati che le cose più preziose hanno un valore, ma non hanno prezzo: non si possono comprare, non sono in vendita, non esiste una somma sufficiente per prenderle e portarsele via. Le cose più prezioso possono solo essere donate e ricevute: non costano nulla, perché hanno un valore infinito, e sono destinate solo a chi le sappia veramente apprezzare.

Ciò significa che noi possiamo anche essere così ciechi da donare le cose più preziose a chi non le sa vedere e non le merita; e possiamo essere così stolti da non vederle e non  riconoscerle quando vengono donate a noi. In tali casi, però – che sono assai più frequenti di quanto generalmente non s’immagini – la generosità non si accompagna alla consapevolezza; e dunque si tratta di una generosità immatura, di uno sperpero, di una pazza prodigalità da parte di chi dona, e di una ottusità totale da parte di chi dovrebbe ricevere e non vede, né apprezza.

Per essere veramente prezioso, il dono deve essere offerto da una persona consapevole a un’altra persona consapevole: perché il valore della cosa donata aumenta se ad essa si accompagna la consapevolezza di quanto essa è costata, non in termini materiali, ma in termini morali e spirituali, cioè in termini di auto-perfezionamento e di benevolenza disinteressata. Per fare un esempio terra terra: un piatto cucinato con amore è più prezioso di un piatto cucinato per dovere o per abitudine: è costato molto impegno, molta dedizione, molto trasporto; è la manifestazione visibile di un grande sentimento. Chi abbia visto il film «Il pranzo di Babette», diretto da Gabriel Axel nel 1987 e tratto dal racconto omonimo di Karen Blixen, capirà esattamente di che cosa stiamo parlando. Un pranzo può essere una meravigliosa offerta d’amore: in esso si può esprimere, senza bisogno di parole, tutto ciò che di più ricco, di più generoso, di più amabile vi è nel cuore di una persona desiderosa di offrire il meglio di sé ad altre persone.

Dunque, per donare veramente se stessi, bisogna aver lavorato duramente su se stessi, così da diventare degni del sentimento che si vuole esprimere: se si vuole offrire il meglio di cui si è capaci, bisogna, niente di meno, lavorare a trecentosessanta gradi su se stessi. Non basta lavorare su se stessi in un solo settore, in un solo aspetto: bisogna mettersi in giuoco totalmente e incondizionatamente, senza riserve e sena strategie dilatorie. Non basta, per esempio, offrire qualcosa di tecnicamente perfetto, come un pittore che offra alla sua donna un bel ritratto di lei, eseguito con somma cura e diligenza; ci vuole di più, molto di più: ci vuole l’amore. Solo se il dono è espressione di vero amore, sarà un dono perfetto.

Però, se nella propria vita ci si è sprecati, se ci si è dissipati, se ci è buttati via per noia o insipienza, per cinismo o per smodata e malriposta ambizione, allora si è talmente poveri da non poter donare niente, da non aver niente di autentico e di prezioso da donare. Se ci si è ridotti ad essere un guscio vuoto, un guscio senza sostanza, non si può fare dono di sé: a meno che si voglia ingannare l’altro, che lo si voglia prende in giro, che lo si voglia manipolare e circuire. Se si fa questo, si agisce come dei falsari: si spaccia moneta falsa con il preciso scopo di derubare il prossimo. Il mondo, purtroppo, è pieno di siffatti falsari: persone che non hanno più nulla da offrire, perché si sono dissipate interamente, e che nondimeno fingono di donarsi a qualcun altro, fingono di essere abbastanza ricche da fare dono di sé. Nascondono il proprio vuoto, la propria lebbra interiore, sotto apparenze ingannevoli e cercano di spacciare il proprio nulla come fosse qualcosa di prezioso, trasmettendo il contagio della loro stessa malattia.

In sintesi: per poter donare, bisogna essere ricchi; e la vera ricchezza non è spontanea, né la si può improvvisare: essa consiste nella crescita interiore e nella consapevolezza, che rende benevoli ed equanimi, che sradica le radici dell’ego, che rende aperti, gioiosi e sensibili ai bisogni altrui (non ai capricci, non alle cosiddette “esigenze”, pretenziosa mascheratura di bisogni fasulli). Solo il bambino è spontaneamente ricco: quando un bambino di due anni dona alla sua nonna un sassolino, raccolto nel cortile di casa, le offre il dono più grande che si possa immaginare, perché lo offre col cuore, con tutto il suo cuore, senza avere la minima nozione del valore economico delle cose. È un dono da anima ad anima: puro, disinteressato, totale. Ma l’adulto non possiede più quella purezza; deve, però, cercare di riconquistarla, non più su un livello inconsapevole, come accade al bambino, ma in maniera pienamente consapevole, come è proprio dell’uomo. In fondo, tutto il cammino di consapevolezza consiste nel ritrovare l’innocenza perduta del bambino, coniugandola con la maturità che è propria dell’adulto.

Chi ha compreso questo e si sforza di realizzarlo, è in grado di donare e anche di offrire quel dono supremo e perfetto che è il dono di se stessi. Ha capito cosa sia il rispetto di sé e cosa sia il rispetto dovuto all’altro; ha capito che non si può fare dono della propria spazzatura e che non è giusto contrabbandarla per qualcosa di prezioso; ha compreso la terribile serietà ed il valore infinito dell’atto di donarsi. Non è una cosa da tutti; e non è una cosa di ogni giorno. Solo il santo riesce a donarsi totalmente e quotidianamente: perché non attinge le risorse da se stesso, ma dalla Sorgente infinita. Il santo, peraltro, non è un superuomo: è ciò che tutti potremmo diventare, se lo volessimo davvero. Il fatto è che non lo vogliamo, perché siamo troppo presi dall’amore di noi stessi: amore sbagliato, amore immaturo, amore egoico, basato sulla brama del possesso; mentre il vero amore di sé richiede il movimento esattamente opposto: il lasciarsi andare, il lasciar andare il proprio ego, per scoprire la ricchezza non nel ricevere, ma nel dare. Ed ecco che per la persona consapevole, per la persona che ha lavorato duramente e intensamente su se stessa e che si è spogliata della brama del possesso, anche il gesto più piccolo, anche la parola più piccola, anche il silenzio palpitante di comprensione e di benevolenza, diventano dono, dono perfetto, dono inestimabile. Perché in quel gesto, in quella parola, in quel silenzio, traspare tutta intera l’anima di colui che dona: anima pura, incontaminata, luminosa.

Non sono frequenti simili persone, né lo sono simili doni; ma forse non sono neppure così rari come si crede: solo, bisogna saperli vedere, bisogna imparare a riconoscerli in mezzo a tanta merce dozzinale, a tanta robaccia spacciata come preziosa. Infatti, solo chi sa donare davvero, sa anche riconoscere il dono che vale: perché solo chi sa amare, avverte la reale presenza dell’amore.

di Francesco Lamendola

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