Nel volto di una donna dai mille volti si riflette l’alienazione dell’umanità moderna

Che volto ha, il volto della folla?

C’è un racconto di Edgar Allan Poe, «The man of the Crowd» («L’uomo della folla», pubblicato nel 1840), in cui il narratore dice di aver seguito un uomo che, in mezzo alla folla londinese, lo aveva particolarmente incuriosito, per il suo strano aspetto e per il suo modo di fare sfuggente; di averlo seguito per ore e ore, lungo le strade affollate, le piazze piene di traffico, spesso tornando curiosamente al punto di partenza, e sempre circondato da una umanità brulicante, instancabile, onnipresente. Alla fine il narratore racconta di aver desistito dal suo inseguimento, essendosi reso conto che non sarebbe mai riuscito a raggiungere il suo uomo, né sarebbe mai riuscito a comprendere il suo segreto, quel suo vagare apparentemente insensato e imprevedibile, senza una meta né uno scopo qualsiasi, instancabilmente, come un’anima in pena del Purgatorio. Ebbene, forse il grande scrittore americano aveva intuito fin d’allora e anticipato la riflessione su uno degli aspetti più caratteristici, ma anche più sconcertanti, della vita nelle metropoli moderne, percorse incessantemente da una folla irrequieta e come impazzita, simile alle formiche il cui formicaio sia stato distrutto a sassate e che si spargono tutto intorno, disorientate e incapaci di sostare: l’inafferrabilità e l’assoluta anonimità dell’uomo-massa. L’uomo massa non è più una persona, in un certo senso nemmeno un individuo: è un frammento infinitesimo della massa in cui si muove e senza la quale, fuori della quale, sarebbe perduto; quella massa che costituisce il vero organismo vivente della megalopoli e, rispetto alla quale, i soggetti che la compongono non sono che dei frammenti, delle schegge, delle parti intercambiabili e senza una vera personalità, quasi delle contraffazioni della vita vera, delle caricature degli esseri umani.

Ma che volto ha, una di queste minuscole, insignificanti formichine: ha ancora un volto, un volto tutto suo, oppure non ha che delle maschere intercambiabili, che assume a seconda delle circostanze e con le quali si mimetizza, di volta in volta, a seconda dello sfondo sul quale si muove, diventando indecifrabile in mezzo ad altri volti indecifrabili, sorridente in mezzo ad altri volti sorridenti, triste in mezzo ad altri volti tristi, e così via?

Pirandello, press’a poco, la pensava in questo modo: egli riteneva che, dietro le cento maschere che portiamo, o meglio che la società ci impone di portare, non vi è un “uno”, non vi è un “io”, non vi siamo “noi”, ma vi è il nulla: perché noi siamo nessuno. La vita, infatti, è un continuo fluire, ma un fluire inconsapevole; mentre l’uomo, che è consapevole della propria vita, la sente e vi riflette, per ciò stesso si separa dalla vita, si esilia da essa, si pone in disparte e la guarda passare come una cosa estranea: così facendo egli sembra diventare “qualcuno”, perché guadagna in unità e coerenza (apparenti), cioè assume una essenza; ma, in effetti, è ancor meno reale dei personaggi creati da uno scrittore (che in realtà non li crea, li evoca, ma questo discorso ci porterebbe troppo lontano), i quali, almeno, se non hanno l’esistenza, possiedono però una essenza, sono pur sempre se stessi, coesi, unitarî: non hanno bisogno di fingere d’avere un “io”, lo hanno sul serio, anche se si tratta di un “io” virtuale, perché nato dalla penna del loro autore.

Ebbene, a Pirandello sarebbe piaciuto un singolare episodio che il neurologo e scrittore Oliver Sacks (guarda caso, di origine londinese, come l’uomo della folla di Poe) dice di aver vissuto in una strada di New York, in maniera assolutamente casuale; un episodio che potrebbe essere scaturito dalla fantasia di Poe, di Kafka o, appunto, di Pirandello, ma che ha invece l’aspro sapore di verità che è proprio d’un fatto di vita vissuta.

Ed ecco come lo racconta Oliver Sacks, in una pagina drammatica e altamente significativa del suo libro «L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello» (titolo originale: «The Man Who Mistook  His Wife for a Har», 1985; traduzione dall’inglese di C. Morena, Milano, Adelphi, 1986, pp. 167-169):

«Il mio sguardo fu attratto da una donna sulla sessantina, coi capelli grigi, che a quanto pareva stava suscitando intorno a sé un vero e proprio scompiglio, benché a tutta prima non riuscissi a capire che cosa stesse succedendo, che cosa in lei causasse un simile trambusto. Era un attacco di convulsioni?  Che cosa mai la sconvolgeva e insieme con lei,  per una sorta di “simpatia” o di contagio,  sconvolgeva anche tutti quelli davanti ai quali passava digrignando i denti e producendosi in una serie di tic?

Quando fui più vicino capii. LA DONNA IMITAVA I PASSANTI, per quanto “imitare” sia forse un termine tropo scialbo, passivo. Sarebbe piuttosto il caso di dire  che metteva in caricatura tutte le persone che incrociava.  In un secondo, in una frazione di secondo, li “coglieva” alla perfezione.

Ho visto un’infinità di mimi e di pantomime,  di clown e di pagliacci, ma niente eguagliava l’orribile, prodigiosità di ciò che stavo vedendo in quel momento: un riflesso speculare praticamente istantaneo, automatico e convulso di ogni viso e ogni figura. Ma non era una semplice imitazione,  cosa che già sarebbe stata straordinaria. La donna non solo assumeva e faceva propri i tratti di innumerevoli persone,  ma li distorceva in modo caricaturale.  Ogni riproduzione era anche una parodia,  una presa in giro, un’esagerazione  in sé non meno convulsa che intenzionale, poiché era la conseguenza della violenta accelerazione  e distorsione di tutti i suoi movimenti: un sorriso lento, mostruosamente accelerato diventava una violenta smorfia che durava un millisecondo; un gesto ampio, accelerato diventava  una mossa convulsa e grottesca.

Nel tempo impiegato a percorrere un breve isolato, la vecchia forsennata fece la caricatura di quaranta o cinquanta passanti, freneticamente,  in una raffica di caleidoscopiche imitazioni  mai più lunghe di uno o due secondi, a volte anche meno; e tutta la vertiginosa sequenza a sua volta non durava più di due minuti.

E poi c’erano le comiche imitazioni di secondo e terzo grado, perché la gente, sorpresa, offesa e sconcertata dalle sue imitazioni, reagiva con nuove imitazioni comiche che a loro volta venivano ri-riflesse, ri-mandate, ri-distorte dalla tourettica, suscitando una sorpresa e un’indignazione ancor maggiori. Questa grottesca e involontaria risonanza,  o reciprocità, che trascinava TUTTI in un’interazione assurdamente amplificatoria, era la fonte  dello scompiglio che avevo notato da lontano. Ma la donna che, diventando tutti, perdeva il proprio sé,  diventava nessuno; questa donna dai mille volti, dalle mille maschere e “personale” – come doveva sentirsi, LEI, in questo turbine d’identità?  La risposta non tardò a venire, e fu la benvenuta,  poiché la tensione sua e degli altri si stava avvicinando rapidamente al punto d’esplosione. Con uno scatto improvviso e disperato la donna svoltò in un vicolo laterale, e lì proprio come se fosse stata colta da un violento attaccio di nausea,  espulse, spaventosamente accelerati e abbreviati, tutti i gesti, tutti gli atteggiamenti, le espressioni, il contegno, l’intero repertorio comportamentale delle quaranta e più persone che aveva incontrato. Vomitò uno smisurato fiotto pantomimico espellendo così da sé le identità delle ultime cinquanta persone che l’avevano posseduta. E se per assorbirle aveva impiegati due minuti, per liberarsene bastò un unico rigurgito: cinquanta persone in dieci secondi, un quinto di secondo o meno per il repertorio, scorciati nel tempo, di ogni persona.

In seguito avrei passati centinaia di ore a parlare con pazienti affetti dalla sindrome di Tourette, a osservarli, a farne registrazioni filmate, a imparare da loro. Ma nulla, credo, mi insegnò mi insegnò così tante cose, in modo così immediato, penetrante, travolgente, come quei due fantasmagorici minuti in una strada di New York.»

Oliver Sacks è un bravo scrittore e un uomo intelligente, ma è anche un neurologo; e alla sua mentalità di medico-scienziato basta applicare una etichetta, basta fare ricorso alla formula magica: “sindrome di Tourette” (malattia che copre, in realtà, un amplissimo e quasi indefinito spettro di patologie comportamentali) per ritenersi relativamente appagato, o, quanto meno, per esorcizzare l’angoscia davanti al mistero, pur se egli conserva un atteggiamento di stupore davanti ai fenomeni della vita, così varî e imprevedibili, così elusivi e inafferrabili.

A noi, però, non basta, anche se non ci riteniamo più “bravi” di lui e nemmeno più “curiosi”; semplicemente, non pensiamo che la spiegazione scientifica del mondo possa esaurire l’enorme complessità del reale, né andare al fondo del mistero che si cela nell’anima umana. Non solo: “horribile dictu”, restiamo disponibili ad una spiegazione dei fenomeni che non tenga conto soltanto della natura visibile delle cose, ma anche di quella invisibile; in altre parole, non solo della dimensione naturale, ma anche di quella soprannaturale.

Il caso della donna newyorkese descritta da Oliver Sacks, in effetti, sembra essere molto di più che un “semplice” caso di patologia tourettica, per quanto complesso ed eccezionalmente originale. Non si tratta soltanto di “tic”, di smorfie, di atteggiamenti imitativi incontrollabili, di tipo violentemente compulsivo; si tratta di qualcosa che sembra molto più grande e terribile: qualcosa che, forse, non si può spiegare solo in termini naturalistici, e dunque scientifici, perché sembra rimandare alla sfera, se non del soprannaturale, almeno del preternaturale.

Nel libro del padre Malachi Martin, «In mano a Satana» (Sperling & Kupfer, 1978, p. 9 sgg.), si narra di un clamoroso, impressionante esorcismo che ebbe luogo a Nanchino, in Cina, nel 1937, alla vigilia della caduta della città nelle mani dell’esercito giapponese, che vi avrebbe perpetrato crimini orrendi. Un sacerdote cattolico, Michael Strong, fu chiamato a tentare un disperato esorcismo su di un giovane cinese battezzato, Thomas Wu, che non solo si era macchiato di numerosi assassinii, ma aveva anche divorato i cadaveri delle sue vittime, facendosi cannibale; e che, circondato dalla polizia in un capannone già avvolto dalle fiamme, sarebbe perito nell’incendio, portando con sé il suo allucinante segreto.

Prima di scomparire nel fumo, egli fece ancora in tempo a beffarsi, con voce non umana, da dietro i vetri di una finestra, del prete esorcista e a ricordargli che Thomas Wu sarebbe rimasto per sempre prigioniero del Diavolo; ma la cosa più impressionante fu che, in quegli ultimi istanti di vita, sul volto del moribondo passarono innumerevoli volti, in successione inverosimile, fino a lasciar trasparire il volto dell’unico, antichissimo Nemico:

«… Poi l’allucinato ghigno di Thomas scomparve, per cedere il posto a una faccia completamente diversa, a un ghigno diverso. Sul volto del morente cominciarono a comparire per un attimo, in rapida successione, innumerevoli facce che subito scomparivano. Tutte ghignanti. Tutte “con l’impronta di Caino sul mento”, come padre Michael definì il segno caratteristico che lo perseguitò per il resto della vita come un incubo. Ogni paio di labbra era atteggiato nella pronuncia della parola “una!”, l’ultima detta da Thomas. Facce ed espressioni che padre Michael non aveva mai visto in vita sua. Alcune gli parevano conosciute; credette di riconoscerne altre. Facce viste in libri di storia, in dipinti, nelle chiese, sui giornali, negli incubi. Facce giapponesi, cinesi, birmane, coreane, inglesi, slave. Facce vecchie, giovani, barbute, rasate, nere, bianche, gialle, maschili, femminili. A ritmo sempre più veloce. Tutte atteggiate nello stesso ghigno. E ancora facce, facce. Padre Michael si vide passare davanti una fila interminabile di volti nel precipitoso susseguirsi dei decenni, secoli, millenni. Finalmente, la sfilata si fece più lenta finché non comparve l’ultimovolto ghignante, carico di odio. Questa volta, l’impronta di Caino copriva tutto il mento…»

Ed ora, una rapida riflessione antropologica. L’uomo moderno ha rifiutato Dio, ha voluto farsi il Dio di se stesso; ha costruito le sue città come luoghi simbolici della sua potenza, ha eretto i grattacieli come altrettante torri di Babele, quasi a sfidare il Cielo e a voler sopprimere, toccandola e profanandola, la dimensione della trascendenza. Ma in questi luoghi caotici e superbi, intrisi dello spirito della negazione, egli non è felice: si aggira come un prigioniero, ma un prigioniero cui le sbarre del carcere abbiamo provocato uno stato di follia. Il re uomo, orgoglioso del proprio dominio terreno, si è mutato nell’osceno re buffone del Carnevale dei pazzi, che si agita scompostamente, senza pace, simile a una insonne marionetta. E il suo volto non rivela più i tratti d’un volto umano…

di Francesco Lamendola

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