Introduzione
L’uso di simboli come mezzo di comunicazione con i propri simili e con il mondo sovrannaturale è antico quanto l’uomo: veniva già impiegato nell’età della pietra, dall’ignoto artista che affrescava la grotta di Altamira. I mezzi espressivi utilizzati per disseminare simboli sono i più svariati: dalla parola scritta alla pittura, dall’architettura alla musica.
Al contrario del segno, che è un mezzo per comunicare un concetto in maniera puntuale, il simbolo possiede un contenuto emozionale proprio, che ne trascende il significato razionale. Ad esempio, la differenza tra un cartello stradale ed una figura zodiacale è che il primo (un segno) veicola un significato pratico, mentre la seconda (un simbolo) muove anche le emozioni di chi la guarda. Proprio la capacità di far appello alle componenti psichiche extra-razionali del destinatario rende possibile, nel simbolo, la fusione di più significati, senza l’esigenza di mantenere la coerenza o l’univocità: un simbolo può “significare” più cose, anche in apparente contrasto tra loro. Inoltre, essendo la sfera emozionale diversa da un individuo all’altro, l’interpretazione di un simbolo è necessariamente personale.
Nella lettura dei simboli, si possono seguire molte tradizioni, ma non esiste alcuna ortodossia.
Da ciò deriva che il significato dei simboli non è cristallizzato nel tempo, ma evolve continuamente: l’interpretazione personale è influenzata dal contesto; si arricchisce dei contenuti aggiunti da ogni successiva generazione di “lettori”, mentre alcuni dei significati originari vanno perduti perché nessuno è più in grado di afferrarli. In questo non bisogna vedere, come fanno alcuni, un processo di corruzione di una sapienza originaria, ma soltanto una naturale evoluzione. È vero che l’interpretazione del simbolo da parte del destinatario può, in questo modo, essere diversa da quella di chi l’ha prodotto in un certo contesto: mentre il cartello stradale ha lo stesso significato per l’assessore al traffico e l’automobilista, il segno zodiacale sul portale di una cattedrale viene percepito dall’osservatore moderno diversamente da come pensava lo scultore che l’ha modellato.
Questo aggiunge, e non toglie, fascino al mondo simbolico.
Le considerazioni sopra riportate mi consentono di mettermi subito al riparo dalle possibili obiezioni dei lettori. Questo breve testo non è un “Bignami” sulla vera ed autentica interpretazione dei simboli nella musica, ma soltanto un approccio profondamente personale. Alcune delle interpretazioni dei simboli musicali qui presentate sono opinabili, ed altre sono state omesse. L’intento di chi scrive non è quello di fornire una trattazione sistematica, ma soltanto qualche spunto.
Una delle caratteristiche dei simboli è che, pur essendo visibili per tutti, spesso vengono compresi solo da alcuni. L’uso di simboli specifici è un elemento fondante di molte tradizioni iniziatiche. Opere d’arte contenenti simboli esoterici possiedono quindi più piani di lettura: uno, più semplice, aperto a tutti, ed altri più profondi riservati ai soli iniziati. La musica si presta particolarmente bene a questo tipo di operazioni: alle note che si ascoltano si associano rapporti numerici e metodi di scrittura che non sono immediatamente percepibili dal grande pubblico e che possono diventare veicoli di significati specifici. Bisogna però ricordare che, al pari delle altre arti, anche la musica possiede molte costrizioni tecniche, che un eccesso di entusiasmo esoterico può condurre a scambiare per simboli.
È opportuno ricordare che questo breve saggio non è stato scritto da un musicista; questo comporta sicuramente qualche inesattezza sul piano tecnico, di cui mi scuso anticipatamente. È anche vero, però, che la musica viene scritta per essere ascoltata, più che per essere suonata: i principali destinatari delle opere musicali sono quindi i non musicisti. Credo che tutti siano d’accordo che non occorre essere un poeta per capire, anche in modo profondo, la Divina Commedia. Paradossalmente, la relativa incompetenza tecnica può aiutare a percepire in modo più immediato e completo gli aspetti emozionali della musica, senza essere infastiditi dalla sovrastruttura delle conoscenze sulla tecnica di composizione e di esecuzione. Per questo motivo, nel testo i riferimenti alla tecnica ed alla teoria musicale sono stati mantenuti al minimo indispensabile per la comprensione.
Le note musicali e l’armonia delle sfere
Nella chiesa di Santa Maria Novella, a Firenze, si trova la cappella funebre di Filippo Strozzi, affrescata da Filippino Lippi. I dipinti, di soggetto allegorico, colpiscono per il rigore dell’impianto architettonico, l’eleganza dei personaggi raffigurati, la raffinatezza del cromatismo (sui toni del blu e del violetto, ravvivati da fini dorature). Ad uno sguardo attento, si scoprono negli affreschi molti elementi simbolici: ad esempio, la palma come simbolo di immortalità; rappresentazioni delle virtù di fede, speranza e carità, con la speranza e la carità sotto forma di personaggi e la fede indicata da un riferimento biblico; raffigurazioni delle muse, figlie di Apollo e quindi del Logos.
Allegorie così complesse potevano verosimilmente essere comprese solo da una piccola parte dei contemporanei di Filippino Lippi; la maggior parte degli spettatori poteva forse apprezzare le qualità estetiche degli affreschi, ma solo pochi iniziati erano in grado di penetrare nel significato profondo di questa opera, che pure era sotto gli occhi di tutti. A facilitare la lettura, gli oggetti dotati di maggiore valore simbolico sono sottolineati da dorature, che contrastano con la dominante cromatica dell’affresco e quindi richiamano l’attenzione dello spettatore.
Nei dipinti colpisce la presenza di numerosi strumenti musicali e di personaggi femminili che fanno musica. Non è un’orchestra che intona un canto funebre, ed anzi le suonatrici hanno un aspetto sereno, quasi allegro. Inoltre, gli strumenti rappresentati non sono quelli dell’epoca di Filippo Strozzi, ma riproduzioni (più o meno verosimili) di strumenti dell’antichità classica; ciò indica che l’artista non aveva intenti realistici, ma piuttosto voleva indicare, attraverso questi strumenti, qualche concetto più profondo. Le dorature che sottolineano gli strumenti musicali ne suggeriscono il valore simbolico. Gli affreschi indicano una lettura della musica come ponte verso l’immortalità: questo ne giustifica la presenza così vistosa in una cappella funebre. Il valore della musica non è riferito a Filippo Strozzi, che non era un musicista, ma ad un ecclesiastico; è un valore assoluto di immortalità, che però viene indicato solo a quel ristretto numero di persone che potevano avere gli strumenti per decifrare le allegorie del dipinto. A confermare questa ipotesi, nell’affresco campeggia l’enigmatica scritta “INITIATI CANUNT” (cioè “gli iniziati fanno musica”).
L’idea che la musica sia un mezzo potente per penetrare nei segreti più profondi dell’Universo è stata formulata sin dai tempi più remoti. Molti miti della creazione collocano all’origine del mondo una vibrazione sonora, come la risata o il grido di Toth in Egitto, o la parola del Veda in India; analogamente, il Vangelo di Giovanni inizia con il celebre incipit “In principio era il Verbo”. Le culture più diverse indicano quindi all’origine dell’universo un suono, o una parola, o un canto [1]. La musica, cantata o strumentale, può essere vista come un’eco della vibrazione sonora all’origine dell’Universo e quindi come mezzo di conoscenza e di elevazione. Nel Giuoco delle perle di vetro di Hermann Hesse, il protagonista si avvicina alla sfera superiore con la mediazione della musica e solo attraverso di essa raggiunge il più alto esoterismo del Giuoco delle Perle [2].
Un’immagine riportata da varie fonti classiche, compreso un celebre passo della Repubblica di Platone, è quella che riguarda l’armonia sonora delle sfere celesti. Secondo questa concezione, ciascuna sfera celeste, nel suo movimento circolare attorno alla terra, produce un suono, che non è udibile all’orecchio dei comuni mortali perché troppo profondo. L’insieme dei suoni delle sfere celesti forma però un’armonia di indescrivibile bellezza. La musica umana, nella sua limitatezza, cerca di riprodurre in modo imperfetto questa armonia; in questo modo, essa non è soltanto una fonte estetica di piacere, ma anche uno strumento di elevazione spirituale e di conoscenza.
Essendo la scala musicale composta da sette note, sembra naturale cercare di associare a ciascuna di essa un pianeta, con la sua sfera celeste. Se ad ogni nota corrisponde un pianeta, tale nota può assumere i significati simbolici (sul piano morale e spirituale) propri di quel pianeta e del metallo ad esso associato (oro per il sole, argento per la luna, ferro per marte, e così via) [3]. Le corrispondenze planetarie delle note sono descritte sin dall’antichità e se ne trovano ampie tracce letterarie nel Medioevo. Il problema è che autori diversi forniscono schemi di associazione tra note e pianeti diversi tra loro; alcuni autori (ad esempio, Plutarco) riportano addirittura più tabelle di corrispondenza planetaria in contraddizione l’una con l’altra [1]. In ogni caso, l’associazione di ciascun pianeta con una delle sette note musicali non sarebbe compatibile con l’armonia delle sfere celesti descritta da Platone: se ogni sfera, ruotando, suonasse una delle sette note, si dovrebbe avere una continua sovrapposizione delle sette note; il suono così prodotto non sarebbe affatto armonico, ma fortemente dissonante.
Si può anche osservare che la scala a sette note (cosiddetta eptatonica) è tipica della cultura occidentale, ma non è condivisa da altre tradizioni musicali. In gran parte del lontano oriente, ad esempio, si impiegano scale a cinque note (pentatoniche), che in Cina prendono il nome di Kung, Shang, Kio, Che e Yu, e che corrispondono ai nostri fa, sol, la, do e re. Anche nella tradizione cinese si associa a ciascuna nota un pianeta (Saturno a Kung, Venere a Shang, Giove a Kio, Marte a Che, Mercurio a Yu) [4]. Inoltre, a ciascuna nota sono associati una stagione dell’anno, un punto cardinale, un elemento, un punto dell’ordine naturale ed una caratteristica morale, secondo lo schema seguente:
Nota |
Stagione |
Punto card. |
Elemento |
Ordine naturale |
Virtù |
Kung |
Centro |
Terra |
Principe |
Dolcezza tolleranza |
|
Shang |
Autunno |
Ovest |
Metallo |
Ministri |
Giustizia rettitudine |
Kio |
Primavera |
Est |
Legno |
Popolo |
Compassione attivismo |
Che |
Estate |
Sud |
Fuoco |
Faccende umane |
Altruismo, espansività |
Yu |
Inverno |
Nord |
Acqua |
Oggetti |
Rispetto dell’ordine |
L’esecuzione corretta della musica, in questo contesto di corrispondenze, era una garanzia del mantenimento dell’ordine naturale e dell’ordine sociale [5].
L’esigenza di corrispondenze tra gli elementi e le note musicali sembra essere stata avvertita anche nel mondo occidentale; non potendosi utilizzare le note musicali, perché di numero non adatto, si sono prese in considerazione altre entità. Nel mondo greco, le quattro corde della lira di Apollo corrispondevano ai quattro elementi (la corda più bassa alla terra, la corda di re all’acqua, la corda di sol al fuoco e quella di la all’aria) [3].
Siccome la suddivisione della scala musicale in sette note non è universale, ed altre tradizioni impiegano scale a cinque o quattro note, si può affermare che la scala eptatonica non è un fenomeno naturale, ma un prodotto culturale. È anzi possibile ipotizzare che il numero sette sia stato scelto come ordinatore delle note per il suo valore simbolico. In altri termini, non si può escludere che le note siano sette proprio perché si avvertiva l’esigenza di stabilire una corrispondenza delle note con i pianeti.
A questo riguardo, si può ricordare che la scala eptatonica si è precisata in epoca greca classica, grazie all’opera del musicista Aristosseno – e quindi in un’epoca in cui la teoria dell’armonia delle sfere celesti era stata già formulata. I nomi delle note che si usano oggi nei paesi latini (do re mi fa sol la si do), con la variante arcaica ut al posto di do, sono di origine medioevale e derivano da una preghiera di San Giovanni, utilizzata nel XI secolo da Guido d’Arezzo come strumento mnemonico per l’insegnamento della musica: “Ut quaeant laxis/ re sonare fibris/ Mi ra gestorum/ Fa muli tuorum/ Sol ve polluti/ La bii reatum/ (S ancte J ohannes)”. Può essere considerata suggestiva l’associazione dei nomi delle note musicali con la figura di San Giovanni, santo esoterico per eccellenza.
Nella scala eptatonica occidentale, le sette note sono divise l’una dall’altra da intervalli uguali tra loro, pari ad un tono, ad eccezione di mi e fa e di si e do, che sono separati da un intervallo pari alla metà di un tono (semitono). Questa scala permette di descrivere la maggior parte, ma non tutti, i suoni necessari all’espressione della musica nella nostra tradizione. In effetti, la musica occidentale utilizza anche i suoni corrispondenti ai semitoni compresi tra una nota e l’altra (ad esempio, il suono intermedio tra do e re ), che corrispondono ai tasti neri del pianoforte. Per esprimere questi suoni, si utilizzano i cosiddetti accidenti, cioè il diesis (#) e il bemolle (b), che aumentano o diminuiscono di un semitono la nota cui sono accostati; il suono intermedio tra do e re può quindi essere espresso come do# o come reb. L’intervallo compreso tra un do ed il do successivo (cioè il suono successivo della stessa tonalità, ma più acuto), chiamato ottava, è perciò diviso in realtà in 12 semitoni. A ciascuno di questi semitoni può essere fatto corrispondere un segno zodiacale, secondo lo schema seguente [1]:
do ariete/ re cancro/ re bilancia/ mi capricorno
mi toro/ fa leone/ fa scorpione/ sol acquario
la gemelli/ la vergine/ si sagittario/ si pesci
La divisione dell’ottava in dodici semitoni ha una diffusione più ampia rispetto a quella della scala eptatonica: infatti, essa viene utilizzata, oltre che in Occidente, anche in Cina, in Giappone, nel Sud-Est asiatico.
Neppure la divisione in dodici semitoni è però universale: nella musica indiana, l’ottava viene divisa in otto intervalli uguali tra loro (producendo quindi sette note, che però non corrispondono a quelle occidentali); nel mondo islamico, si usa una scala a 24 note, che prevede anche i quarti di tono (che vengono percepiti dall’orecchio occidentale come “stonati”) [4]. Anche per la divisione in 12 semitoni, quindi, vale quanto abbiamo detto per la scala a sette note: è un’organizzazione musicale non strettamente necessaria e limitata ad alcuni contesti culturali. Non si può escludere che la divisione dell’ottava in 12 semitoni sia nata proprio dall’esigenza di stabilire una corrispondenza tra un semitono ed un segno zodiacale.
Le corrispondenze tra note e pianeti, oppure tra semitoni e segni zodiacali, percorrono tutta la cultura occidentale e sono una testimonianza della volontà di conferire alla musica un significato simbolico. Queste corrispondenze, però, sembrano aver concorso in maniera marginale allo sviluppo della musica nel corso dei secoli. Altri e ben più significativi valori simbolici possono essere trovati in aspetti diversi della musica. In effetti, l’orecchio umano è molto più abile nel riconoscimento di intervalli, piuttosto che del valore assoluto di singole note. Se, ad esempio, facciamo udire ad un musicista esperto, ma non dotato di un orecchio assoluto, un suono senza fornirgli altri parametri di riferimento, questi non è in grado di stabilire se è un la, oppure un sol; se però gli facciamo udire due suoni diversi, egli non avrà problemi a stabilire se l’intervallo tra di essi è di uno oppure di due toni. Sembra quindi naturale ricercare significati simbolici innanzitutto nella teoria degli intervalli, cioè nelle leggi dell’armonia.
Il monocordo di Pitagora e le leggi dell’armonia
Tra le molte scoperte di Pitagora, vanno annoverati anche i principi dell’acustica, individuati attraverso un semplice strumento: il monocordo. Si tratta di una corda di pelle animale, tesa su un supporto rigido, capace di vibrare in prossimità di una cassa di risonanza e di produrre quindi un suono; un ponticello mobile consente di variare la lunghezza della porzione di corda che vibra senza variarne la tensione, producendo così suoni di altezza diversa. Uno strumento di questo genere veniva talvolta usato per fare musica nell’antica Grecia ed è tuttora in uso presso alcune popolazioni primitive.
Il suono da noi percepito è una serie di piccole onde di pressione, che costituiscono una vibrazione; questa vibrazione è dotata di una sua ampiezza e di una sua lunghezza d’onda. L’ampiezza determina l’intensità del suono, mentre la lunghezza d’onda (che è l’inverso della frequenza) ne determina l’altezza. A suoni più acuti corrispondono lunghezze d’onda minori – e frequenze più elevate. Pitagora scoprì che dimezzando la lunghezza della corda vibrante del monocordo (cioè, dimezzando la lunghezza d’onda e quindi raddoppiando la frequenza) si ottiene un suono più acuto, ma con la stessa caratteristica; in altri termini, raddoppiando la frequenza si ottiene un suono che corrisponde ad un’ottava superiore.
Ad esempio, se la nota di base era un do, otteniamo un altro do, ma più acuto. Il rapporto armonico tra questi due suoni (quello di base e quello dell’ottava superiore) era definito dai greci diapason. Se invece riduciamo la lunghezza della corda vibrante a due terzi del totale, otteniamo una nota diversa (se la nota di base era un do, otteniamo un sol), che però è molto “armonica” con la nota iniziale; questo viene definito modernamente un intervallo armonico di quinta, mentre nell’antica Grecia era chiamato diapente. Riducendo la lunghezza della corda a tre quarti del totale, otteniamo una nota ancora diversa (partendo da un do, avremo un fa), ma ancora in ottima “armonia” con la nota iniziale; questo è un intervallo armonico di quarta, o diatessaron [5] .
Il fondamento fisico dell’armonia degli intervalli è stato scoperto molti secoli dopo gli esperimenti di Pitagora con il suo monocordo. Oggi sappiamo che un suono è una vibrazione determinata dalla regolare successione di piccole onde di pressione che si propagano per mezzo ed in presenza dell’aria; quando si produce un suono, questa vibrazione genera, per fenomeni di risonanza nello strumento che l’ha prodotta e nell’ambiente circostante, altre vibrazioni di ampiezza minore e di frequenza multipla di quella del suono base. Queste vibrazioni “accessorie” sono dette armoniche superiori o ipertoni ed accompagnano qualsiasi suono. In effetti, ciò che udiamo non è mai un suono puro, ma l’insieme del suono base e delle sue armoniche superiori. Questo “suono composto” è quello che ci permette di riconoscere il timbro di una voce da un’altra, o di distinguere il timbro del pianoforte da quello del clavicembalo.
Le armoniche superiori sono una serie di note di frequenza crescente e di intensità decrescente, che hanno la caratteristica di avere una frequenza multipla rispetto a quella del suono di base. Ad esempio, partendo dal do, la prima armonica è quella che ha una frequenza doppia, cioè il do dell’ottava superiore; la seconda armonica è quella che ha frequenza tripla, ovvero il successivo sol, eccetera. Anche gli strumenti di misurazione più raffinati riescono a registrare soltanto il suono delle prime armoniche, ma la serie delle armoniche può essere teoricamente proseguita all’infinito:
Nota |
Frequenza |
Intervallo (rispetto alla nota precedente) |
Do |
1 |
|
Do |
2 |
Ottava |
Sol |
3 |
Quinta |
Do |
4 |
Quarta |
Mi |
5 |
Terza maggiore |
Sol |
6 |
Terza minore |
… |
… |
… |