Land grabbing: l’ultima frontiera del colonialismo liberista

spooner_1504_main-420x01di Gianni Tirelli

Dopo la crisi finanziaria del 2007, la terra da coltivare (specie quella del Sud del mondo) è diventata un bene sempre più prezioso, oggetto di un frenetico “accaparramento” in cui sono impegnati sia i paesi, come quelli arabi, ricchi di liquidità ma privi di terre fertili, sia le multinazionali dell’agro/business – interessate a creare enormi piantagioni per la produzione di biocarburanti – sia una serie di società finanziarie, convinte che l’investimento in terre possa garantire guadagni sicuri. Il risultato è l’avvento di una nuova forma di colonialismo che rischia di alterare gli scenari internazionali (come dimostrano per reazione le recenti rivolte nordafricane, legate all’aumento dei prezzi delle derrate alimentari).

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Recentemente si è iniziato a considerare la crisi alimentare come un fenomeno strutturale, di cui un aspetto preoccupante è il così detto land grabbing, cioè l’accaparramento di ampie porzioni di terreno nei paesi in via di sviluppo. Questo fenomeno è stato descritto come una nuova forma di colonialismo, dove grandi investitori, con il beneplacito dei governi locali corrotti e l’appoggio delle agenzie internazionali, hanno avviato una grande campagna per assicurarsi il controllo delle terre e dell’acqua, sottraendole ai contadini di Africa e America Latina.

Si denunciano così i danni sociali e ambientali prodotti dai grandi latifondisti, sottolineando i gravi pericoli che si creano quando i generi alimentari diventano delle commodities scambiate sui mercati internazionali, le cui fluttuazioni hanno ricadute disastrose per le popolazioni locali.
La corsa al controllo di terre e acqua, ha come sfondo una più generale crisi legata alla distribuzione e all’uso delle risorse, che sempre più appaiono limitate.

Dietro questo nuovo fenomeno chiamato land grabbing, si nasconde una versione del colonialismo ancora più crudele e perversa – ovvero l’acquisizione per pochi spiccioli di terreni fertili e delle relative risorse, situati in nazioni povere o alla canna del gas. Uno studio recentemente analizza il problema dal punto di vista agro-idrologico, misurando il rapporto tra i terreni acquisiti e la quantità d’acqua necessaria alla loro coltivazione estensiva.

Da una decina d’anni a questa parte, la domanda globale di generi alimentari e biocarburanti, registra una crescita costante. Paesi ricchi che però non hanno terre coltivabili e acqua (come l’Arabia Saudita), o che contano su un’alta densità di popolazione (come il Giappone), o che vedono crescere la domanda intera di beni di vario tipo (come la Cina) hanno cominciato da tempo a investire nell’acquisto o nell’affitto a lungo termine di terreni all’estero. Molti terreni: in Madagascar (a titolo di esempio), la metà dei terreni agricoli del Paese (1.300.000 ettari) è stata comperata dalla Corea del Sud e verrà destinata alla coltura di mais e palme da olio. Per comprare un terreno, non si interpella chi ci vive: molto spesso, soprattutto nei contesti più poveri, gli abitanti non posseggono atti di proprietà o documenti di alcun tipo. La cessione del suolo e delle risorse a esso legate viene decisa nella maggior parte dei casi a livello governativo.

Il fenomeno del land grabbing interessa tutti i continenti, ad esclusione dell’Antartide. Il 47% degli Stati “grabbati” si trova in Africa e il 33% in Asia. Quarantuno sono i “grabbatori” e 62 i “grabbati”; tra questi ultimi, 24 costituiscono il 90% del totale dei territori ceduti.
Tutto quello che viene prodotto deriva dall’acqua: nel momento in cui questa risorsa viene sfruttata, soprattutto in aree dove già si registra una diffusa malnutrizione, la situazione si aggrava.
Come succede con altre materie prime, chi ci guadagna, oltre ai compratori, sono i governi locali, che cedono intere regioni a prezzi irrisori (un ettaro di terreno, in alcune aree, può costare 1-2 dollari all’anno), talmente a buon mercato da rendere convenienti gli investimenti stranieri anche in zone prive di qualsiasi infrastruttura, o politicamente instabili. Una volta venduto, il venditore si disinteressa dell’uso che del terreno viene fatto: non esiste tutela sociale o ambientale di sorta, e il terreno può essere inquinato, inaridito o genericamente esaurito di qualsiasi risorsa.
Le comunità locali vengono di sovente scacciate; nei casi più fortunati i nativi del luogo possono essere assunti come braccianti nei nuovi impianti. José Graziano da Silva, direttore della Fao, ha paragonato recentemente il land grabbing in Africa alla conquista del selvaggio West – eppure sembra difficile anche solo l’ipotesi di arginare questo fenomeno barbaro.
L’accaparramento selvaggio di terre e le richieste d’acquisto provengono soprattutto dalle industrie produttrici di biocarburanti che necessitano di immense estensioni di terra per coltivare palme da olio, mais, colza, girasole, canna da zucchero e altre specie vegetali dalle quali ricavano il carburante alternativo ai prodotti petroliferi.

Innanzi tutto a rendere attraente questo tipo di investimenti sono le condizioni alle quali in genere i contratti vengono stipulati.
Due terzi dei terreni e delle risorse naturali “accaparrati” in questi ultimi anni (ed è questo un altro dato essenziale per capire portata e conseguenze del fenomeno) si trovano in Africa, e in particolare in Africa subsahariana. La Corea del Sud ha acquisito nella sola isola di Madagascar 1.300.000 ettari, pari alla metà dei terreni agricoli del paese, destinati a colture di mais e olio di palma.

È evidente poi che i terreni rurali renderebbero molto di più alle popolazioni autoctone, e ai loro paesi, se fossero loro a coltivarli, a sfruttarli e a commercializzare i raccolti vendendoli agli stati e alle imprese stranieri: meglio ancora se poi si sviluppassero industrie locali di trasformazione con i relativi indotti. Il danno è ancora maggiore se si considera che, per far posto ai nuovi proprietari, ogni volta innumerevoli famiglie, talvolta decine di migliaia, perdono mezzi di sostentamento e casa.

Tutto questo succede nel continente della “fame” per eccellenza, che importa generi alimentari a caro prezzo; l’unico in cui denutrizione e malnutrizione continuano ad aumentare, come documentano ogni anno i rapporti della Fao e degli istituti internazionali di ricerca.

In realtà, poi, per quanto riguarda l’Africa, le previsioni sono apocalittiche. Rights and Resources Iniziative, una coalizione internazionale di Ong, ha pubblicato nel febbraio del 2012 i risultati di una ricerca condotta in 35 stati africani secondo la quale la maggior parte degli 1,4 miliardi di ettari di terre rurali africane, dai quali dipende la sopravvivenza di almeno 428 milioni di contadini poveri subsahariani, non risultano proprietà di nessuno, a disposizione dei governi che possono servirsene a loro discrezione, approfittando di sistemi di proprietà lacunosi e del potere di cui così spesso fanno cattivo uso.

L’Africa, è un continente colpito ogni anno da scarsità stagionali e in certi casi permanenti di generi alimentari di base, e la perdita di raccolti alimentari.
A peggiorare il quadro, sono le tante terre fertili che vengono destinate alla produzione di biocarburanti a scapito delle colture alimentari, per ricavare energia.
Quando la terra e l’acqua, sono oggetto di speculazione e fine di profitto privato, con tutte le conseguenze devastanti sulle popolazioni, dimentichiamoci ogni futuro, e prepariamoci alla terza guerra mondiale.

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