L’alimentazione viva

Fresh-Fruits-002A cura del Prof. Armando D’Elia
“L’UOMO E’ QUEL CHE MANGIA”

Tutti i vegetariani concordano nel ritenere che – in linea di principio – l’uomo dovrebbe consumare solo alimenti vegetali e nello stato in cui essi si trovano in natura, cioè freschi, crudi e nella loro integralità, “cotti” a fuoco lento dai raggi del sole. Sappiamo tuttavia che tra i vegetariani soltanto i crudisti si attengono completamente a tale principio sul piano pratico, mentre gli altri coprono solo in parte i loro pasti quotidiani con cibi crudi, oppure praticano il crudismo solo per qualche giorno o per alcuni pasti. Dobbiamo riconoscere che è quanto meno innaturale sottoporre a cottura, quasi a correggere la natura, i cibi offertici crudi dalla natura stessa; e del resto 1′uomo, prima di scoprire il fuoco e di imparare a utilizzarlo, producendolo a volontà, a scopo culinario, per moltissimi millenni non ha potuto che cibarsi di cibi crudi. La cottura dei cibi in realtà risulta estremamente dannosa in quanto denatura, devitalizza e uccide il cibo che, se non era già morto prima di essere sottoposto a cottura, diviene certamente morto dopo cotto e come tale non più adatto alla nutrizione ottimale del corpo “vivo” dell’uomo e degli altri animali assoggettati all’uomo: un corpo “vivo” dovrebbe infatti alimentarsi solo con cibi “vivi’ , giacchè i cibi morti sono mortiferi. Torneremo più tardi su questo argomento. L’uomo è l’unico animale che sottopone a cottura il proprio cibo. Non solo, ma obbliga anche gli animali che ha assoggettato pensiamo per esempio al cane e al gatto) a mangiare cibi cotti. E ‘uomo è l’unico animale che si ammala e che fa ammalare gli animali cosiddetti domestici, alimentati nella stessa maniera, tanto che – come tutti sanno – una apposita categoria di medici, – i veterinari – si interessa esclusivamente di tali animali.

Mango frutta dal brasile                                                     Frutta dal Brasile

Ma esiste veramente una così lineare relazione di causa ed effetto tra la cottura dei cibi e i danni alla salute dell’uomo e degli animali domestici?  Indubbiamente non è soltanto la cottura dei cibi a produrre lo stato di malattia e la morte prematura dell’uomo; vi sono altre cause, o meglio “concause”, ma la cottura del cibi è, senza alcun dubbio, se non l’unica, la causa di gran lunga più rìlevante di tali disastrosi effetti. Si potrà certo obiettare che si può cuocere anche un cibo già morto, per esempio il cadavere di un animale e il corpo già morto di un vegetale (piante o frutta disseccate, semi tanto vecchi da aver perduto la facoltà germinativa, ecc.) ma noi qui vogliamo in particolar modo riferirci alla cottura di cibi che, pur potendo essere consumati allo stato crudo con gran vantaggio dell’uomo, sono sottoposti, invece, irrazionalmente, all’azione del calore artificiale con effetti senz’altro devastanti e degni della nostra massima attenzione, come tra poco vedremo.

Lo spunto a questo mio intervento mi è stato offerto da quel bellissimo volumetto, che l’Associazione Vegetariana Italiana (AVI) giustamente diffonde e raccomanda, dal titolo “Non più alimenti “morti” per vivere” e nel quale sono magistralmente esposti, da tutti i validissimi autori che hanno collaborato alla sua stesura (tra i quali mi fa piacere ricordare un medico assai stimato, il dott. Delor), i contributi delle diverse discipline scientifiche al processo, in atto, di recupero della nostra alimentazione naturale, soprattutto medìante la esclusione degli alimenti “morti”. In realta ci sarebbe da aggiungere ben poco a detto lavoro, ma egualmente voglio dare il mio modesto contributo a tale importante fine esponendovi alcune considerazioni, corredate da notizie che ritengo possano essere interessanti. Chiedo sin d’ora venia se, per esigenze dì chiarezza, sarò costretto ad affermazioni che sono probabilmente ai limiti della ovvietà.

Un seme, cotto, non germina pìù; un uovo di gallina, fecondato, se covato dopo cotto, non darà mai più un pulcino; una pianta erbacea, appena estirpata e con l’apparato radicale integro, se cotta, non riattecchirà più nel terreno; e gli esempi potrebbero continuare. La cottura, quindi, uccide la vitalità questo è evidente.

 

Le tecniche usate per la cottura dei cibi vanno dall’arrostimento diretto su griglie a quello su superfici arroventate, dai fornia legna o a combustibile liquido alla bollitura in recipienti adatti, dai forni elettrici a quelli a raggi infrarossi o a microonde, dai forni a gas metano a quelli a bombole,ecc., ecc. Ma tutte codeste tecniche servono a raggiungere solamente un effetto: elevare la temperatura del cibo sottoposto a cottura per indurvi delle modifiche supposte utili ai fini digestivi, ma    soprattutto che aumentino l’appetibilità dei cibi  così trattati, cioè per soddisfare il palato. E in effetti la cottura “crea” nuovi odori e nuovi   sapori; inoltre ammorbidisce  e disgrega il prodotto facilitandone la masticazione incoraggiando così, purtroppo, la dannosa abitudine di mangiare in fretta masticando poco.

Nell’ottica della caccia al microbo di pasteuriana si attribuisce alla cottura il merito di operare un risanamento dei cibi sul piano microbiologico; ma questa considerazine perde pressochè completamente di valore quando si pensa che la cottura distrugge, come vedremo fra poco, proprio quel compesso di fattori che sono alla base delle nostre difese naturali che dovrebbero difenderci dai microbi. Si adduce un’altra motivazione alla cottura e cioè che l’alimento cotto si presta più di quello crudo a costituire un supporto per condìmenti ed ingredienti aggiuntivi, quali salse più o meno piccanti, sughi, intingoli vari, sostanze aromatiche, grassi, ecc.; ma in effetti è lo scadimento di vitalità conseguente alla cottura che spesso determina tale bisogno di condimenti violenti, che sono poi in sostanza degli eccitanti, ai quali purtroppo il palato si abitua, avendo perduto la capacità di gustare le cose semplici e naturali con i loro relativi tenui e delicati sapori. In sostanza, il ricorso ai condimenti forti diviene di fatto per l’organismo una vera e propria causa di intossicazione. In conclusione, non dobbiamo tener conto dei fini edonistici anzidetti (della pretesa giustificazione della cottura imperniata sulla necessità di prolungare la conservazione dei cibi, diremo più avanti); dobbiamo invece sentirci interessati ad indagare scientificamente per sapere se la cottura incide veramente, e in quale misura, sulle caratteristiche vitali e nutrizionali dell’alimento. Passiamo, quindi, ad una analisi, necessariamente succinta per questioni di spazio, delle conseguenze della cottura sui diversi componenti nutritivi dei cibi.

Cominciamo dalle proteine, le quali subiscono un brusco decadimento del loro valore biologico, dovuto in gran parte alla parziale (in qualche caso totale) di aminoacidi essenziali ; tale distruzione e particolarmente intensa in caso di bollitura in quanto questa provoca la idrolizzazione dei composti proteici e la susseguente dispersione, nel mezzo liquido, degli aminoacidi. Se poi la cottura delle proteine si effettua o mediante la frittura, che avviene a temperatura più elevata, o mediante forni a raggi infrarossi, che sono molto penetranti, si verificano effetti ancora più negativi di quelli provocati dall’arrostimento. Considerando poi l’aspetto “digeribilità”, si deve tener presente che le sostanze proteiche già a 60°C iniziano a flocculare e poi coagulano del tutto, divenendo inattaccabili dai succhi gastrici e quindi indigeste. Passiamo ora ai carboidrati (per brevità ci limitiamo ad esemplificarli con il pane, della cui componente proteica abbiamo detto prima). Il noto cancerologo dott. Alberto Donzelli (v.Girasole 1984 n. 3) ci mette in guardia dall’usare parti “imbrunite” dei prodotti da forno (tutti!), che contengono composti mutageni. Il calore, infatti, prima destrinizza i carboidrati (amidi) e poi li riduce a zuccheri, zuccheri però riducenti che sono capaci di legarsi ad alcuni costituenti delle proteine, dando prodotti cancerogeni.

In merito alla maggiore digeribilità degli amidi cotti bene (ad esempio la crosta del pane, in confronto alla mollica interna), derivante dall’azione della temperatura (come si diceva sopra, destrinizzazione e poi zuccheri), si tenga presente che il corpo umano è capace di fare la stessa cosa con i propri enzimi (ptialina, ecc.) amilolitici, senza ricorrere alla cottura: l’amido (farina), insapore all’inizio della masticazione, continuando a sottoporlo all’azione della saliva, diviene dolce. Pertanto questo preteso gran vantaggio della cottura ai fini di gestivi, non è proprio tale da riscattare la cottura stessa dalle schiaccianti conseguenze negative che essa comporta!

In quanto all’azione del calore sui grassi, esso causa fenomeni di ossidazione, che portano dapprima alla formazione di perossidi e di idroperossidi, e poi di acidi grassi a catena corta, olfattivamente sgradevoli; inoltre la glicerina che si libera tende a decomporsi trasformandosi in acroleina composto oltremodo tossico. Infine, l’acido linoleico, come il finolenico, preziosi per la sintesi dei fosfolipidi, subiscono, con il calore, delle modifiche strutturali che li rendono inattivi e quindi incapaci della predetta sintesi.

Da tener presente inoltre che in commercio, al dichiarato scopo di impedire i suddetti effetti negativi della ossidazione dei grassi indotta dal calore, si impiegano, come additivi, i cosiddetti “antiossidanti” ( per esempio, il butil-idrossianisolo, gallati
vari, l’alfa-tocoferolo ecc.).  Ma in realtà tali additivi non impediscono un bel niente perchè  il calore pare che ossidi, inattivandoli, i medesimi antiossidanti prima che i grassi.
Ma la cottura crea danni molto gravi distruggendo o denaturando irrimediabilmente, e pressoche integralmente, il corredo vitaminico dei cibi, specie le vitamine termolabili come è ovvio. Tuttavia l’opera distruttiva più grave è quella che viene effettuata a carico di quell’ insieme di fattori vitali che costituiscono il carattere distintivo dei cibi “vivi” nei confronti dei cibi “morti” e cioè : enzimi, ormoni, pigmenti vari, essenze volatili, auxine, biostimoline, complessi antibiotici e antiossidanti naturali, aromi, complessi germinativi ecc. La perdita, per effetto della cottura, di questi fattori vitali è irrimediabile e gravissima in quanto essi costituiscono la base biologica delle difese naturali dell’organismo.
Inoltre la clorofilla, durante la cottura delle parti verdi dei vegetali, subisce la degradazione a feofitina, di colore bruniccio, inutilizzabile dall’organismo.
Da tener presente infine che tra le peggiori conseguenze della cottura è da annoverare la perdita, nell acqua di cottura, o per altre vie, degli oligoelementi e dei preziosi sali minerali.

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Ma vi sono molteplici altri elementi che concorrono tutti a farci affermare, sulla scia di Marziale, che “vivo non è esser vivo, ma star bene” e che, per star bene, cioè per essere “vivi”, occorre alimentarsi con cibi “vivi”. Per un semplice motivo : che la vita procede dalla vita, mentre – come ammonisce Léon Behar – “gli alimenti morti sono portatori di morte”.
Il noto igienista A.I. Mosséri ci dice (nel suo famoso trattato “La santé par la nourriture”) “Gli alimenti cotti non sono adatti all’alimentazione umana, essendo denaturati, devitaminizzati e demineralizzati”.
Il prof. Byron Tyler ripete .”Gli alimenti cotti sono alimenti morti”.
Il prof. Lino Businco, docente di patologia generale all’Università di Roma, cosi si esprime a proposito del crudismo : “La vita è cruda perchè tutti i suoi processi biologici si svolgono in un ambiente naturale, nei limiti della temperatura alla quale cellule e tessuti svolgono le loro attiività vitali. L’uomo primitivo, come sappiamo, assumeva dall’ambiente materie nutritive che consumava crude. Poi con l’avvento del fuoco ha abbandonato il suo integrale crudismo dietologico e questo abbandono ha infranto una fondamentale legge nutrizionistica che ha nel crudismo la sua base essenziale. Nel mondo animale, del resto, non vi è alcuna altra specie che cuocia i suoi cibi. L’abbandono del crudismo ha molto contribuito a favorire nell’uomo l’insorgenza e lo sviluppo di molte malattie a decorso cronico, come l’arteriosclerosi , le affezioni del ricambio, le avitaminosi, ecc. gran parte delle quali assenti o rare nel restante mondo animale” (dalla introduzione al libro di Nico Valerio sul crudismo, cui accennerò dopo).

 

“Cadavere” non è quindi solo il corpo di un animale morto, crudo o cotto che sia, ma “cadavere” è anche un vegetale ucciso con la cottura.
Accenneremo fra poco alle scoperte del medico di Losanna P. Kouchakoff e dell’ingegnere francese A. Simoneton, che hanno dimostrato scientificamente ed inequivocabilmente la negatività dei cibi cotti.
Ma dopo tante citazioni di studiosi stranieri non possiamo fare a meno, per amore di verità e non certo per un malinteso nazionalismo (da cui peraltro noi siamo certamente esenti), di ricordare qui l’analoga opera notevolmente meritoria di molti medici italiani, tra i quali mi piace ricordare i seguenti, sconosciuti purtroppo, a molti, se non ai più : Giuseppe Tallarico medico e biologo, autore del famoso libro “La vita degli alimenti”, meritorio anche perchè gettò le basi per la critica
scientifica,  clinico-biologica,  dell’alimentazione dell’adulto umano con latte vaccino, fatta poi propria, anche all’estero da molti insigni medici e studiosi; Ettore Piccoli, milanese, fondatore dell’Unione Naturista Italiana, autore di
lavori, tra i quali “L’alimentazione dell’uomo” (Milano, 1921) e “Norme di Igiene Nuova” (Milano, 1923), il quale soleva esemplificare i cibi morti citando  le marmellate, da lui definite “autentiche composte di cadaveri”; Oscar Montanari, che scrisse un libro, più noto all’estero che in Italia, in difesa del crudismo, dal titolo lapidario “Gli alimenti cotti indeboliscono, ammalano, uccidono il corpo umano” (Roma, 1912); G. P. Penne, autore di “Rivoluzione in cucina con il regime fruttarlano” (Roma, 1935);
Giuseppe Paneqrossi, noto clinico dell’Università di Roma, autore del libro in difesa del fruttarismo “Il naturismo nei confronti della scienza e della civiltà (Roma, 1937); Giorqio Oreglia, torinese, autore di  “Mangiare per vivere”, in difesa del crudismo (Torino, 1953). Aggiungo ancora Nico Valerio, il cui libro sul crudismo (“Tutto crudo – Prima guida completa degli alimenti “vivi” – Oscar Mondadori, 1985) ha riscosso notevoli e meritati consensi  in campo medico. E, infine, E. Alliata di Salaparuta che con il suo libro “Cucina vegetariana e naturismo crudo’ – Palermo 1971 – esponeva la sua “gastrosofia naturista” con 120 ricette crudiste.

Come si vede, studiosi italiani, medici e non medici, che hanno, con specifiche pubblicazioni, denunciato i misfatti della cottura, ce ne sono. Tuttavia, molti di loro sono rimasti pressoché sconosciuti nel passato, giacchè allora non esisteva un ente o una associazione a carattere nazionale che fungesse da centro coordinatore e propulsore di una così importante tematica nel campo della dietetica umana e da trait d’union fra tutti coloro che si interessavano del graduale ritorno dell’uomo alla sua originaria alimentazione viva.

A colmare questo vuoto culturale ed associativo c’è stato un primo tentativo purtroppo fallito del quale ci dette notizia, al Convegno nazionale dell’Associazione suolo e salute (tenutosi a Torino nel  1978) il prof. Luciano Pecchiai, direttore
ospedale per bambini Buzzi di Milano e noto cultore di eubiotica, il quale riferì che già nel 1960 lui e Alfredo Ghiotti avevano deciso di fondare l’AIRAN, cioè l’Associazione Italiana per il Ritorno all’Alimentazione Naturale, che però per vari motivi non potette concretizzarsi (Atti del 1° Convegno nazionale Associazione suolo e salute – Torino, 1979). In Francia esiste però ancora l’AFRAN (Association Francaise Retour Alimentation Naturelle).
Oggi è finalmente sorta la “Lega per l’alimentazione viva” che ha ripreso saldamente in mano la predetta iniziativa di Pecchiai, ed intende assolutamente portarla avanti anzitutto richiamando alla coscienza di tutti gli italiani la necessità di rivedere senza indugi il proprio modo di vivere, a cominciare dall’alimentazione.

 

Occorre quindi rivedere tutta l’alimentazione tradizionale alla luce dei criteri fondamentali che presiedono all’alimentazione viva e che nel presente opuscolo sia pure succintamente vengono esposti.
Bisogna operare delle scelte, decise e coraggiose: ne va di mezzo il nostro bene supremo, cioè la nostra salute fisiopsichica, data la strettissima correlazione tra la nostra salute fisica e quella mentale mirabilmente espressa, come ben si sa, dalla famosa frase di Giovenale “Mens sana in corpore sano”.

E poichè le potenti industrie alimentari ci impongono, attraverso i convincimenti operati sulla nostra mente dai mass-media, (con l’ausilio di medici ignoranti o senza scrupoli o, peggio, assoldati dalle industrie farmaceutiche o alimentari) cibi morti ed avvelenati, autentici “cibi-spazzatura” (felice espressione, usata recentemente – dicembre 1990 – da Siegmund Ginzberg, corrispondente da New York di un grande quotidiano italiano, per indicare i cibi, tutti da eliminare, che provocano “avvelenamenti di massa” e che sono un grande affare per le industrie alimentari che li producono). Ma non dimentichiamo che già nel 1973 Gerald Messadié nel suo famoso libro “L’alimentatìon suicide” aveva denunciato senza mezzi termini i misfatti operati dal cibo spazzatura e ne aveva dimostrato i rovinosi effetti sulla nostra salute mentale, concludendo sinistramente che “L’uomo si scava la fossa con i propri denti”. Si deve insomma ritenere per certo che una siffatta alimentazione non possa che “drogare” anche la nostra mente. Partendo da tale considerazione c’è chi ha proposto, pur senza intenti spregiativi, di definire “uomini-spazzatura” coloro che, avendo subito per troppo tempo gli effetti del cibo-spazzatura, dovrebbero per questo essere ritenuti ormai irrecuperabili. Di diverso avviso è invece la Lega per l’alimentazione viva la quale ritiene che, qualunque sia il livello di degradazione fisio-psichica causata da una alimentazione impropria, l’individuo possa risalire la china e operare una vera e propria rinascita di sè stesso mediante il graduale ripristino della alimentazione naturale viva. A tal riguardo mi torna alla memoria il Nobel Isaac Singer il quale, convertitosi al vegetarismo in età avanzata, ammoniva “Non e mai troppo tardi!”
Naturalmente l’alimentazione viva opera con efficacia risolutiva, oltre che sul piano curativo, anche su quello preventivo in quanto, tenendo l’uomo lontano dal cibo-spazzatura, attiva la migliore tutela possibile della sua salute fisica, mentale e morale. Torniamo un momento ad accennare, come ho prima promesso che avrei fatto, ai due studiosi stranieri Kouchakoff e Simoneton che ci hanno fornito con i loro originali lavori scientifici le prove della validità e addirittura della necessità fisiologica dell’alimento crudo, cosa che è stata messa in giusto risalto dal dott. Delor (per il Dott. Kouchakoff, sul n. 61 de “L’Idea Vegetariana” e, per l’ing. Simoneton, sul già citato libretto “Non più alimenti morti per vivere”).
A proposito del medico di Losanna (Kouchakoff) mi limito qui a ricordare, sia pure molto succintamente, che egli ha dimostrato, a conclusione di migliaia di esperimenti condotti su molti soggetti e su lui stesso, che un alimento cotto provoca la moltiplicazione quasi immediata (sin dai primi atti masticatori, giacchè la reazione fagocitaria è innescata addirittura nella cavità orale) dei globuli bianchi, che come è noto servono a difenderci da corpi estranei a noi dannosi, soprattutto di natura microbica, mentre l’alimento crudo non la provoca mai.
Esiste, insomma, nel nostro organismo una sorta di automatismo fisiologico in forza del quale l’alimento cotto è trattato come un aggressore, contro il quale il corpo mobilita il suo più potente mezzo di difesa, cosa che non fa con l’alimento crudo, che evidentemente il corpo accetta come un “amico”, cioè come il cibo “naturale” dell’uomo.
Queste scoperte sono di basilare importanza perché da esse scaturisce una verità fondamentale, a proposito della quale preferisco riferire il pensiero di un autorevole studioso, il prof. A. Delaval, che così si esprime :”L’uomo fa cuocere i suoi cibi ormai da parecchie centinaia di generazioni; ebbene, dopo tanto tempo non si è verificato alcun adattamento anatomo-fisiologico all’alimento cotto, che continua ad essere rifiutato dall’organismo mediante l’azione di rigetto evidenziata sperimentalmente da Kouchakoff. Insomma l’uomo continua a reagire oggi all’alimento cotto come ha fatto la prima volta migliaia di anni fa. Dopo tanto tempo il corpo continua a rifiutarsi di adattarsi a tale nostra incosciente perseveranza. Pertanto la scoperta di Kouchakoff ci ha reso edotti di una esperienza gigantesca sull’uomo, cominciata nella preistoria e deve costituire per noi un serio ammonimento. Le nostre difese sollecitate diverse volte al giorno, devono inevitabilmente indebolirsi e forse in questo risiede la nostra grande vulnerabilità alle infezioni. Inoltre, ogni individuo possiede un certo capitale energetico al quale attingono tutti i mezzi di difesa dell’organismo. L’effetto Kouchakoff dovuto alla alimentazione cotta diminuisce dunque la resistenza dell’organismo a tutte le aggressioni”. Così il prof. Delaval, che dedica un intero lungo capitolo del suo libro a questo argomento. (A. Delaval – “La nature n’est pas d’accord” – Paris, 1970).

La scoperta del dott. Kouchakoff è così importante da potere essere paragonata a quella dell’abate Gregorio Mendel, che si può considerare il padre della genetica. Ma Kouchakoff è accomunabile a Mendel per un altro importante fatto. Mendel pubblicò le sue scoperte nel 1865, ma tutte  le società scientifiche del tempo le ignorarono e Mendel morì nel 1884, senza alcun riconoscimento  ufficiale dei suoi lavori di ricerca. Solo nel 1900, dopo 35 anni di silenzio, finalmente la scienza ufficiale
“scopri” la grandezza di Mendel e l’importanza enorme delle sue famose “leggi sulla ereditarietà dei caratteri” che rivoluzionarono la biologia. Per il modesto medico di Losanna, Kouchakoff, continua il “silenzio” della scienza ufficiale ed egli sta subendo la stessa sorte di Mendel. Ma è facile prevedere che non potrà rimanere ancora a lungo ignorato.

Per quanto ne so io, sembra che il dott. Delor sia stato sinora l’unico medico italiano a parlare della scoperta di Kouchakoff (e a scriverne sulla rivista dell’Associazione Vegetariana Italiana, come ho detto prima), mettendone in risalto l’importanza ai fini della conferma della positività dell’alimentazione crudista. E’ doveroso riconoscere al dott. Delor anche questo merito.
Il secondo motivo che mi obbliga a parlare di Kouchakoff è, mi sembra, egualmente importante. rn breve, la storica pubblicazione del Kouchakoff “NOUVELLES LOIS DE L’ALIMENTATION HUMAINE, BASEES SUR LA LEUCOCYTOSE DIGESTIVE”, che ho la fortuna di possedere nell’edizione originale (Lausanne, 1937), può essere oggi integrata e resa completa, in quanto alle finalità scientifiche da un prezioso breve lavoro, ignorato dai più, che sul medesimo
della leucocitosi digestiva fece il medico italiano C. Lusignani, dell’Università di Parma e che io sono riuscito a scoprire in un numero degli Annali di Clinica terapeutica del lontano 1924.

Occorre innanzitutto tener presente che le esperienze di Kouchakoff, conclusesi, con la pubblicazione delle loro risultanze, nel 1936, erano iniziate nel 1912!. Certamente il prof. Lusignani doveva essere a conoscenza degli studi sperimentali del suo collega (che stranamente non cita mai) e doveva averne compreso la grande importanza, come pure certamente sapeva che Kouchakoff non si sarebbbe interessato anche del meccanismo fisiologico che innesca o sospende la leucocitosi digestiva. Il Lusignani si dedica allora escusivamente a quest’ultima ricerca e completa così il lavoro di Kouchakoff offrendoci una spiegazione lucida e razionale che ha il grande merito di dare compiutezza agli studi sulla leucocitosi digestiva.
Il Lusignani, in sostanza, dimostra che le variazioni leucocitarie successive alla ingestione dell’alimento sono dovute a meccanismi nervosi centrali e periferici che, regolando il calibro vasale, determinano attraverso fenomeni di vasocostrizione, la leucocitosi e, attraverso fenomeni di vasodilatazione, una relativa leucopenia. Per cui è chiara la origine nervosa della reazione vasocostrittiva, quindi di chiusura dell’organismo al cibo cotto e, viceversa, dilatatoria, cioè di allentamento della reazione nervosa e di rilassamento delle pareri vasali in caso di ingestione di cibo crudo, evidentemente considerato – da quella che non può non essere chiamata “intelligenza del corpo” – non nocivo all’organismo, confacente ad esso e quindi non necessitante di una azione di rifiuto, di difesa, di rigetto da parte dell’organismo stesso.
In margine e a conclusione del dilemma crudo-cotto, c’è da dire che certamente il nostro organismo è in grado di utilizzare financo cibo cotto, ma in questo caso è costretto a trasformare un corpo morto in materia vivente e un tale sforzo non può essere portato a termine che a spese del nostro capitale energetico (o energia vitale), di cui siamo forniti alla nascita e che perciò viene eroso. Questo nostro capitale energetico, che potremo chiamare più semplicemente “vitalità”, viene pertanto diminuito, in seguito alla cottura dei nostri alimenti, per una duplice causa: per la reazione sanguigna messa in evidenza da Kouchakoff e per lo sforzo supplementare imposto all’organismo per trasformare materia morta in materia viva.

 

Mi sembra necessario accennare brevemente anche alla scoperta del già citato ingegnere francese André Simoneton. Gravemente ammalato, quasi senza speranza di guarigione, riacquistò la salute con il vegetarismo e si dette quindi a studiare la causa delle sottili influenze guaritrici che i vegetali possono così beneficamente esercitare sul fisico dell’uomo.
Scoprì così che le radiazioni emesse dal nostro corpo quando siamo sani si aggirano, in media, sui 6500 Ångstrom, mentre in condizioni di malattia o di cattiva alimentazione scendono sempre al di sotto di tale livello.

Per conservarsi in salute occorre pertanto mantenere costante o superare il suddetto livello delle vibrazioni, utilizzando sia le radiazioni cosmiche e telluriche, sia quelle emesse dai nostri alimenti. Simoneton divise gli alimenti in 3 categorie :

1. alimenti “morti” cibi cotti o conservati, margarina, pasticceria industriale, alcool, liquori, zucchero bianco o grezzo. Questi cibi hanno radiazioni nulle o pressochè nulle;

2. alimenti “inferiori” : carne, salumi, uova non fresche, latte bollito, caffè, the, cioccolato, marmellate, formaggi, pane bianco. Questi cibi hanno radiazioni inferiori a 3000 Ångstrom;

3. alimenti “superiori” o “sani”    frutta fresca, cruda e matura e verdura cruda e fresca. Questi cibi hanno radiazioni molto elevate, tra 8000 e 10000 Ångstrom.
Simoneton ci dice anche che la frutta che ha dato i migliori risultati sperimentalmente è quella appena colta e ben matura e che quindi il consumo di frutta e verdura è tanto più salutare quanto meno tempo è trascorso dal momento in cui è stata staccata dall’albero o raccolta dal terreno e quanto più la frutta è matura.

Noi dobbiamo far tesoro di tali importanti suggerimenti, che sono frutto di cosi’ serie indagini scientifiche, cibandoci con alimenti facenti parte della terza categoria che prima citammo.

In conclusione, possiamo affermare che dalle importanti scoperte di Simoneton esce confermata in pieno la linea nutrizionale del crudismo vegetariano, cioè dell’alimentazione viva.

Possiamo, a questo punto, concludere che un alimento crudo e fresco soddisfa certamente, e nella maniera ottimale, le nostre esigenze nutrizionali, e che la stessa cosa non si può certo dire per l’alimento cotto.

I pretesi vantaggi che le varie industrie conserviere dichiarano di ottenere mediante il calore comportano un impoverimento sul piano bionutrizionale così grave che dovremmo cercare tutti di evitare quanto più possibile i cibi conservati, preferendo prodotti crudi, freschi ed integrali.

Un’ultima considerazione si impone. L’alimento vegetale naturale, vivo, fresco e maturato sotto l’azione dei raggi del sole è il punto di arrivo, materiale e tangibile, di una serie di processi naturali di condensazione di quelle energie che lo hanno dapprima generato, poi fatto crescere e infine portato a maturazione; se noi ingeriamo un siffatto alimento e lo sottoponiamo ad accurata masticazione queste energie si liberano e vengono cedute all’organismo nei vari tratti dell’apparato digerente e nelle varie fasi dei processi digestivi.

In sintesi, mentre per giungere alla completa formazione dell’ alimento si procedette dalla energia alla materia, quando noi ci nutriamo con tale alimento si effettua il cammino inverso, cioè dalla materia all’energia, energia che viene ceduta al corpo e a beneficio di questo. La cottura di un alimento lo rende incapace di simile cessione di vitalità, per il semplice fatto che esso non possiede più vitalità: l’ha perduta in seguito alla cottura.
Solo gli alimenti “vivi” possono, quindi, trasmettere vitalità al corpo, nutrirlo, mantenerlo in salute e conservare e potenziare le sue difese naturali.
In conclusione , l’alimentazione vegetariana deve tendere a ripristinare al massimo grado possibile il crudismo, eliminando, sia pure gradualmente, il ricorso alla cottura dei cibi. Spesso mi sento chiedere, anche da qualche vegetariano : “E i cibi che non si possono mangiare crudi?”. A queste persone viene voglia di rispondere con le parole di Gandhi :

“L’uomo non ha alcun bisogno di cuocere i propri cibi. La cottura distrugge gli elementi più vitali e gli alimenti che non si possono mangiare crudi non erano evidentemente destinati dalla natura a nutrirci. Noi sciupiamo una enorme quantita del nostro tempo prezioso per cuocere i nostri cibi, senza alcun bisogno. Vivendo solo di vegetali non cotti, quanti quattrini, quanto tempo, quanta energia si potrebbero risparrmiare, devolvendo queste varie forze a scopi infinitamente più utili e migliori!” (Mahatma Gandhi – Guida alla salute – Ristampato a cura dell’Istituto Italiano di medicina sociale – Roma , 1983).

Questa breve rassegna delle conseguenze della cottura dei cibi ci porta inevitabilmente a domandarci perchè l’uomo, ad un certo punto  della  sua preistoria, dopo moltissimi  millenni di alimentazione cruda, si decise ad utilizzare il fuoco per cuocere i suoi alimenti. Cercherò di rispondere a questo quesito, necessariamente in forma sintetica. I paleoantropologi sono concordi nell’affermare che, durante la preistoria dell uomo si verificarono eventi meteorologici e geologici che alterarono profondamente gli ecosistemi da lui abitati. In particolare vennero alterati i biomi vegetali dai quali l’uomo traeva il proprio nutrimento. Avvennero, infatti: glaciazioni (espansioni dei ghiacciai), interglaciazioni (ritiri dei ghiacciai e avvento di climi piu caldi), periodi di forte inaridimento climatico, aumenti eccezionali della piovosità (pluviali).
Particolarmente importante per l’uomo fu l’ultima glaciazione denominata Würm, dell’era quaternaria, nel periodo chiamato Pleistocene. Tale immane glaciazione comportò l’avanzata dei ghiacciai su gran parte delle regioni euroasiatiche, con conseguente distruzione delle foreste e con effetti che si protrassero sino a 10.000 anni fa circa.

Coeve di tali glaciazioni furono le intensissime precipitazioni (pluviali) che si verificarono in Africa; anche questi eventi climatici furono gravidi di conseguenze per l’uomo, poichè ai pluviali  seguì una fase di calo drastico delle piogge e di  inaridimento del clima (anche per effetto della formazione della Great Rift Valley, lungo la quale l’Africa si è come spaccata per effetto di un grandioso evento tettonico, tuttora in corso) per cui leforeste subirono funeste riduzioni trasformandosi prevalentemente in savana.
L’uomo fu conseguentemente costretto a diventare animale da savana e dovette, per sopravvivere, cibarsi di quello che tale ambiente gli offriva. Vi trovò le graminacee, piante che richiedono spazi
aperti, luce solare diretta, condizioni, queste, presenti nella savana e non nell’ombrosa foresta, donde l’uomo proveniva. Ecco cosa ci dice l’illustre clinico e scienziato prof. Marcello Comel dell’Università di Pisa :”L’uomo per derivazione ancestrale è una “scimmia d’ombra” essendo vissuto per milioni di anni sugli alberi, all’ombra delle foglie, nella sua grande patria d’origine, la foresta. Sceso a terra, vagò per altri milioni di anni nella savana”. (M. Comel – Il quaderno Santoriano della salute – Milano, 1979).
Le graminacee, lo sappiamo tutti, sono piante che producono dei frutti secchi (cariossidi), monospermatici, duri, piccoli, senza odore e senza appetibile sapore, quasi  invisibili, senza apprezzabili variazioni cromatiche all’atto della maturazione : cibo da uccelli, insomma. La paleobotanica ci dice che le prime graminacee spontanee utilizzate dall’uomo furono il frumento (Triticum boeoticum) e l’orzo (Hordeum spontaneum); da queste specie selvatiche derivarono poi le specie coltivate (addomesticate) che poi via via portarono alle spighe dei cereali attuali, ben più ricche di frutti, attraverso incroci e pratiche culturali varie.
L’agricoltura, la proprietà terriera e la stanzialità dell’uomo nacquero, cosi, circa 10.000 anni fa, in 3 zone (Asia occidentale, Asia sud-orientale e America centrale). La parte più vicina a noi, di queste tre zone, è la prima, nel vicino medio Oriente, detta “Mezzaluna fertile” per la sua forma approssimativa, che si estende dalla Palestina all’Iran attraverso la Turchia : da tale zona l’agricoltura si diffuse poi nel bacino del Mediterraneo e nelle altre terre europee.
Ma l’uomo, a causa dell’insufficiente apporto nutritivo delle graminacee spontanee, fu costretto a rivolgere la sua attenzione anche al nutrimento carneo, che poteva procurarsi mangiando gli animali della savana : divenne, quindi, oltre che granivoro, anche carnivoro, nonostante che la sua costituzione fisica fosse – lo è tuttora – quella di un fruttariano, come dimostrano senza alcun dubbio, come sappiamo, la anatomia comparata, la fisiologia comparata, l’embriologia, lo studio degli istinti, la immunologia, ecc.

 

Non posso, naturalmente, soffermarmi qui, come desidererei, sulle tante prove che le tante discipline scientifiche ci offrono sulla essenza dell’alimentazione naturale dell’uomo, che è quella basata sui frutti carnosi, dolci e succulenti, che soddisfano totalmente ed in modo ottimale le esigenze nutrizionali del nostro organismo. Nei miei corsi uso, peraltro, ricorrere alla proiezione di mie diapositive per offrire visivamente queste prove scientifiche, perchè ritengo che non si debbano mai fare delle affermazioni che non siano documentabili.
Non avendo, quindi, l’uomo, le caratteristiche anatomo-fisiologiche nè del granivoro, nè (meno ancora) del carnivoro, per rendere commestibile il cereale ed il cadavere di altri animali dovette egli ricorrere al fuoco, come attestano i reperti dei siti dove furono accesi i fuochi culinari. Nasce, così, la cottura dei cibi, che gradualmente e del tutto irrazionalmente si estese, purtroppo, dalla carne e dai cereali, a tanti altri cibi che assolutamente non la richiedono.

Ecco quel che ci dice, di questo periodo preistorico così decisivo per l’uomo, una voce autorevole (James Collier – L’uomo preistorico – Newton, 1974) “Il Pleistocene fu un periodo stravagante :per quattro volte durante il suo trascorrere i ghiacci avanzarono sino a coprire le regioni del mondo temperato per poi ritirarsi. I ghiacciai del Pleistocene non raggiunsero l’Africa, ma in questo continente l’epoca fu contrassegnata da periodi di grandi precipitazioni piovose alternati a periodi di assoluta siccità. In queste condizioni l’uomo non potette più affidarsi completamente alla vegetazione per nutrirsi e dovette completare con la carne la sua dieta. Ma tutti i carnivori sono forniti di qualche attrezzo simile agli utensili del macellaio : basta pensare al becco dell’avvoltoio, alle zanne della tigre, agli artigli del leone o del gatto selvatico. L’uomo invece, come tutti i primati, non è per natura carnivoro. Si sospetta che l’antenato dell’uomo non sia stato tanto un cacciatore quanto uno “spazzino” che si nutriva delle prede fatte da altri animali, carnivori (sciacallaggio). Forse adoperando sassi e bastoni l’uomo riusciva ad allontanare il leopardo dall’antilope uccisa, se ne impossessava e la trascinava al sicuro nel suo rifugio”. Così Collier. L’uomo in conclusione, fu “costretto” ad operare questa svolta radicale nella sua alimentazione, per poter sopravvivere. Non operò quindi, una scelta, ma semplicemente dovette obbedire ad uno stato di necessità che non offriva alternative. L’istinto di sopravvivenza prese il sopravvento e gli istinti alimentari biologicamente connaturati con la specie umana e orientati alla frutta furono soffocati, non potendo più, l’uomo, soddisfarli.

Si può parlare quindi, di una “deviazione alimentare”, imposta da particolari circostanze, ma non di “errore”, termine che può anche ipotizzare una possibilità di scelta, in realtà inesistente nel caso specifico.

Certamente, però, tale “deviazione alimentare” ha segnato di fatto (per una serie di eventi concatenati, ma tutti necessariamente derivanti da quel deviamento fagico da considerare pertanto come un “primum movens”), l’inizio della  degradazione   fisio-psichica dell’uomo, che è ormai giunta a quei disastrosi livelli che sono oggi di fronte agli occhi di tutti.

L’uomo mangiava le spoglie degli animali, che sottraeva ad altri animali, carnivori, o che lui stesso uccideva, quasi sempre dopo averle cotte. Tuttavia, studi antropologici accurati fanno ritenere assai probabile che le carogne già in via di decomposizione (e che pertanto non necessitavano della ulteriore ulteriore azione disgregatrice ed ammorbidente della cottura) nonchè le
poco consistenti (fegato, cervello, midollo delle ossa, frattaglie) delle prede da poco uccise furono, almeno agli inizi, mangiate crude; la cottura della carne è stata, comunque la norma.
Il fuoco ha avuto (ed ha) una importanza basilare, certamente rivoluzionaria per l’uomo.

 

Il prof. F. Facchini (ordinario di antropologia all’Università di Bologna) ci dice che il fuoco è stato impiegato, a scopo culinario, dall’uomo preistorico  soprattutto per cuocere la carne. (Facchini – Il cammino dell’evoluzione umana – Milano, 1985)

 

Il prof. K. Oaklay afferma che “dei tre principali usi del fuoco fatti dall’uomo del paleolitico (difesa dai carnivori, creazione di nuovi ambienti fisici e cottura dei cibi), la utilizzazione culinaria è quella che ha avuto l’effetto più profondo sull’evoluzione fisica dell’uomo” (K.R.Oaklay – L’utilisation du feu  par l’Homme – Paris, 1958). Concorda su questo anche C. Perlés, docente di preistoria all’Università di Parigi (Perlés – Prehistoire du feu – Paris, 1977).
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Ma oggi non esistono piú, fortunatamente, le ragioni di forza maggiore che obbligarono, come si è detto, l’uomo preistorico a ricorrere ad alimenti che contrastavano con le sue esigenze nutrizionali naturali di frugivoro-fruttariano e che dovevano, peraltro, essere sottoposti a cottura. Ci riferiamo non solo alla ma anche ai cereali.
Di conseguenza, l’uomo ha potuto intraprendere da tempo il lento viaggio di ritorno alla alimentazione naturale biologicamente a lui confacente e totalmente cruda, cioé “vìva”. Ma – domandiamoci – è possibile consumare anche i cereali allo stato crudo, cioè “vivi”? Il loro uso alimentare, come si sa, è assai  radicato ancora, nonostante che  molte Scuole (sopratutto le Scuole Igieniste) li ritengano cibo non adatto all’uomo e altri li qualifichino, per questo, “cibo di compromesso”. In effetti, come vedemmo, il ricorso dell’uomo preistorico al cereale fu una sorta di “compromesso obbligato”, accettato (“obtorto collo”, aggiungo io) sotto l’imperio della fame, mentre l’uso attuale del cereale potrebbe invece, chiamarsi “compromesso volontario”.
Tuttavia, poichè questa breve tesi ha per tema il dilemma crudo-cotto, mi sembra necessario esporvi in questa sede due maniere per poter consumare anche i cereali allo stato crudo, senza ricorrere ad alcuna fonte di calore, allo scopo di non dover escludere, da una dieta crudista, i cereali, a cui molti non saprebbero rinunciare.

 

Un primo metodo consiste nel consumare i cereali dopo averli fatti germogliare. La germogliazione incrementa notevolmente il corredo vitaminico del seme e provoca una sorta di predigestione di alcuni dei suoi componenti più essenziali, conservando nel contempo tutte le vitalie, che anzi dal processo di germogliazione vengono potenziate. Uso dire, ed è vero, che i semi germogliati sono un ‘cocktail di vitamine”.
I germogli sono nutrientissimi, energetici e molto più digeribili dei prodotti ottenuti con la panificazione (che comporta peraltro la cottura e quindi la morte) degli stessi semi non germinati.
Il secondo metodo è quello proposto dal medico svizzero dott. Bruker e che lui chiama “della pappa di cereale fresco”. E’ semplicissimo. Si macinano grossolanamente 3 cucchiai da minestra di frumento o altro cereale (basta un vecchio macinino da caffè). Al macinato così ottenuto si aggiunge acqua fredda e si mescola. Si lascia in riposo per 12 ore, durante le quali il cereale rigonfia sino ad assorbire tutta l’acqua. Indi, si consuma, con eventuale aggiunta di frutta fresca. Tale ricetta è descritta nel libro del dott. Bruker – “La cucina e il tuo destino” – Lugano, 1974.
Una variante per bambini, della “pappa di cereali freschi” di Bruker, è il “latte di fiocchi di cereali crudi” suggerito dai dottori Herbert Shelton e J.H. Tilden e la cui preparazione è descritta nel libro, edito a cura dell’Associazione Vegetariana Italiana (AVI) – 1985, “L’alimentazione del bambino” (Autori vari). Per questa ricetta rimando alla lettura del predetto lodevole opuscolo.
In conclusione: la carne e i cereali furono i primi alimenti che nella preistoria l’uomo sottopose a cottura e che “innescarono” quindi tale esiziale pratica.

Comunque, il viaggio di ritorno all’alimentazione naturale, oltre che essere necessariamente lento, è anche lunghissimo, data la enorme differenza, di cui occorre prendere coscienza, tra la nostra attuale alimentazione, artificiale, morta e avvelenata e l’alimentazione naturale, viva e vitalizzante.

Conviene, quindi, programmare questo viaggio, non senza, però, avere preso conoscenza, che all’inizio potrà anche essere sommaria, delle nostre reali necessità alimentari fisiologiche in modo da acquisire un minimo di cultura dietetica che consenta di regolarsi adeguatamente. Questo ci consente anche di difenderci dall’autentico agguato che ci tendono continuamente le industrie alimentari proponendoci il consumo di sostanze di dubbia convenienza o decisamente nocive. Tutto questo è necessario perchè noi, come sappiamo, abbiamo perduto gli istinti che ci ponevano in grado di orientarci, per effetto di un automatismo biologico, in modo ottimale nella scelta degli alimenti; oggi noi dobbiamo sopperire a tale perdita ricorrendo alla informazione, alla indagine conoscitiva e all’uso della ragione.
Tale viaggio che noi vegetariani abbiamo già intrapreso, data la sua lunghezza deve forzatamente prevedere una serie di obiettivi (che possiamo chiamare anche “livelli” o “gradini”) intermedi da raggiungere. Il primo e più urgente di tali obiettivi è senza dubbio la eliminazione dalla propria dieta del cadavere di altri animali, cioè la eliminazione della più grossolana deviazione dalla nostra alimentazione naturale, che ci portiamo dietro dalla preistoria. Questo obiettivo, oltre ad essere il più urgente ai fini della salute fisica, è di basilare importanza sul piano etico perchè ci riscatta dall’onta della nostra partecipazione al massacro di tanti animali, innocenti e pacifici  nostri compagni di vita, che dobbiamo invece amare e rispettare. Io dico sempre e a tutti che l’etica “è il fiore all’occhiello” dei vegetariani. Ma questa è solo una prima tappa giacchè non basta certo eliminare la carne per poter  dire di aver ripristinato la alimentazione naturale. Operata tale prima “depurazione” della nostra alimentazione, restano, infatti, in vita le altre trasgressioni alle leggi alimentari naturali. In particolare occorrerà :

-non uccidere i cibi con la cottura, ma mangiarli crudi, cioè “vivi”

– eliminare tutti i cosiddetti “sottoprodotti” animali, pur sempre provenienti dal corpo degli animali che sfruttiamo, e certamente con finalizzati, biologicamente, a servire di nutrimento all’uomo (uova, latte di altri mammiferi, e derivati, miele). Sono convinto e sono in ottima compagnia) che i vegetariani “mitigati” (o “ovo latteo-vegetariani) elimineranno tutti dalla loro dieta questi sottoprodotti animali, divenendo, così, vegetaliani

 

– imparare a masticare correttamente 
– imparare a respirare correttamente, dopo avere, naturalmente, eliminato il fumo e ripristinando, soprattutto, la funzionalità diaframmatica. Occorre ricordare sempre che l’aria è il nostro primo alimento e che la respirazione diaframmatica influenza `avorevolmente anche l’attività dell’apparato digerente e dell’apparato circolatorio 

– dare la massima importanza all’attività fisica, cioè al moto, che fra l’altro stimola la peristalsi intestinale e la circolazione 

– eliminare gli alcoolici (vino, birra, ecc:), i nervini (caffè, the, cacao, ecc.), il sale, lo zucchero industriale (bianco o scuro che sia), i grassi da estrazione, le spezie forti (pepe, mostarde, senape, ecc.) 

– aspettare la comparsa della fame per mangiare 

– praticare la massima temperanza nel mangiare, in quanto “tornare alla alimentazione naturale” significa non solo aderenza qualitativa ai nostri fabbisogni nutrizionali biologici, ma anche aderenza quantitativa a tali fabbisogni. Occorre in sostanza mangiare per vivere e non viceversa, in modo da evitare la sovralimentazione, che è causa primaria di molti gravi stati patologici che affliggono tanta parte dell’umanità 

– evitare di ingerire contemporaneamente cibi tra loro incompatibili a causa di diverse o addirittura opposte esigenze digestive. Ricordiamo che fra i tanti tristi primati dell uomo c’e quello di essere l’unico animale che mescola i cibi 

– imparare a seguire mentalmente, concentrandosi durante la masticazione, il trasferimento della energia vitale, accumulata, come si disse, nel cibo vivo, da questo al nostro organismo 

Ora, quanti di noi hanno già realizzato tutte queste tappe? 

Probabilmente nessuno! Altrettanto probabilmente nessuno sarà totalmente soddisfatto della propria condotta alimentare, ma questo, a mio parere, è un bene, perchè costituisce uno stimolo a migliorare. Chi sta più avanti e chi sta più indietro, in questo lungo viaggio. E, d’altra parte, che sia veramente necessario percorrere questo lungo cammino ascendente ce lo dice lo stesso termine di cui ci fregiamo .”vegetariani”. Chi è “vegetariano”?. Chi pratica Il vegetarismo. E che cosa vuol dire “vegetarismo”?. I termini “vegetariano” e “vegetarismo” originano etimologicamente dalla radice indoeuropea VAG, che significa “sospingere, accrescere, fare crescere, rendere gagliardo”. Tale radice si ritrova poi, nella lingua latina, nel sostantivo VIGor (vigore, salute, gagliardia) e nell’aggettivo VEGetus (sano, vigoroso. pieno di vita). TENUTO CONTO DELL’ETIMOLOGIA DEL TERMINE, PER “VEGETARISMO” SI DEVE INTENDERE QUINDI UN SISTEMA DI VITA CHE RENDE L’INDIVIDUO “VEGETUS”, CIOE SANO, VIGOROSO. Nel linguaggio comune, tuttavia, il termine “vegetarismo” indica semplicemente un regime alimentare dal quale sono esclusi i cadaveri di animali (carne) ed il termine “vegetariano” indica chi accetta e pratica tale esclusione.
Le varianti “vegetalismo” (o “veganismo) e “vegetaliano” (o “vegan”) si riferiscono ad un regime strettamente vegetale, con esclusione, quindi, anche dei sottoprodotti animali (uova, latte e derivati, miele), sebbene abbiano la stessa etimologia di “vegetarismo” e “vegetariano”. 

Domanda : basta escludere dalla propria dieta i corpi degli altri animali (pesci e volatili compresi) o, più radicalmente, anche i sottoprodotti animali per potersi dichiarare “vegetus”? Io sono d’accordo con coloro che rispondono a questa domanda con un “no”, che motivo, portando qualche esemplificazione. 

Conosco molte persone che si ritengono vegetariane “perchè non mangiano carne”, ma sostituiscono l’apporto proteico dell’eliminato cadavere con formaggi e legumi; il che, in linea di principio, potrebbe anche andare, ma il guaio è che mangiano quantità enormi di formaggi e legumi, percentualmente, peraltro, spesso più ricchi di proteine della carne eliminata, per cui essi soffrono a causa di stati patologici molto più gravi di quelli che sarebbero a loro derivati se avessero continuato a mangiare 100 gr. di carne al, giorno; fatto salvo, si intende, il positivo aspetto etico della rinuncia alla carne. 

La sola e semplice eliminazione della carne, se non è accompagnata da quelle altre modificazioni del proprio sistema di vita che gradualmente porteranno ad essere veramente “vegetus”, perde in effetti molto valore. 

Occorre, quindi, non solo eliminare la carne (passo, ripeto di primaria importanza, anzi essenziale e che deve pertanto avere la precedenza) ma tradurre in pratica tutte le altre modifiche alimentari cui accennammo, sia pure lentamente e con molta gradualità. 

Si può infatti verificare anche il caso di chi, eliminata la carne, e ritenendosi così assolto dalla colpa di uccidere altri animali, si appiattisce su questo risultato, ritenendo che, essendosi salvata l’anima, si sia salvato anche il corpo; continua, quindi, a bere vino e altri alcoolici, a mangiare tutto cotto, a ingozzarsi di formaggi e uova, a fare mescolanze orrende, a ingoiare senza masticare, a supernutrirsi, a fare poco moto. Questa persona, naturalmente, accuserà vari malanni e se ne meraviglierà. Dirà :”Ma come, eppure ho eliminato la carne!”. 

Occorre perciò cercare di essere vegetariani cioè, aspiranti a diventare, col tempo e con la perseveranza, ‘vegetus”) a pieno titolo, PERCORRENDO GRADATAMENTE TUTTI I GRADINI CHE ABBIAMO PRIMA ELENCATO. Ritenere che il vegetarismo abbia esaurito il suo compito non appena sia stato eliminato il cibo carneo è gravemente riduttivo e costituisce in un certo senso un immiserimento dell’ideale vegetariano, anche perchè l’uomo nel percorrere il lungo cammino che va dalla necrefagia, e dall’onnivorismo di fatto attuale, alla alimentazione “viva’, realizza una crescente eticità della sua alimentazione. 

In conclusione, il dettato etimologico dei termine ‘”vegetarismo” deve avere per ognuno di noi il valore di monito ideale e di affermazione di propositi. 

Un’altra domanda si impone : dovremmo perdere forse il diritto di chiamarci oggi “vegetariani” solo perché non abbiamo ancora raggiunto lo stato di “vegetus”? Io ritengo di no, assolutamente. Noi aspiriamo a diventare “vegetus” e siamo in marcia per poterlo divenire in futuro : per questa nostra aspirazione siamo “vegetariani” e in tale prospettiva operiamo nella “Lega per l’alimentazione viva”.
Dobbiamo pertanto considerare come una nostra doverosa missione il farci portatori e divulgatori della grandiosità del compito del vegetarismo, che non è solo un sistema dietetico, ma un sistema di vita e, se si vuole, una dottrina, una rivoluzione pacifica e pacificatrice.
Dal vegetarismo, inteso in tutta l’ampiezza del termine, deriveranno infatti, inevitabilmente, col tempo, benefiche
conseguenze modificatrici del carattere e del comportamento interpersonale dell’individuo. Questo perchè l’aggressività che era generata dal cibo carneo e dagli altri eccitanti, dall’eccesso di proteine e dalla superalimentazione verrà, abolendosi tali deviazioni e tali eccessi, gradualmente meno e cederà il posto al rispetto della vita in tutte le sue forme (biocentrismo), alla comprensione, all’amore. Concorrerà al raggiungimento di tale obiettivo il fatto che, nel contempo, a misura che si diffonderà il vegetarismo, si recupereranno i terreni incolti e quelli oggi coltivati a piante voluttuarie e dannose o male finalizzate (caffè, the, tabacco, vite da vinificazione, cereali per allevamento di bestiame da macello, ecc.), dedicandoli, invece, a piante alimentari appropriate all’uomo : si potrebbe, così, nutrire abbondantemente una popolazione almeno 15 volte superiore a quellà attuale, che è di oltre 5 miliardi, cioè oltre 75 miliardi di uomini!. Verrebbe meno, di conseguenza, la competitività e la conseguente aggressività fra gli uomini e, anche per questo, si instaurerebbe la pace duratura sulla terra e un naturale comportamento nonviolento. Mi piace riportare, a tal proposito, le parole illuminanti di Edoardo Bratina : “L’unica nostra possibilità di sopravvivenza consisterà nel radicale cambiamento dell’alimentazione. Se l’alimentazione “viva” venisse adottata universalmente sparirebbero la fame nel, mondo, le rivalità fra nazioni ricche e quelle povere, l’incubo della guerra per il possesso delle risorse alimentari ed energetiche, ecc. .” 

C’è tuttavia da aggiungere che il vegetarismo (ed il nostro statuto lo mette nel giusto rilievo) non può andare disgiunto dal rispetto ecologico dell’intera natura, alla quale occorre riavvicinarsi, pur conservando le principali conquiste tecnologiche fondamentali e pertanto il vegetarismo deve anche comprendere l’istanza naturista, con tutte le sue implicazioni e deve collaborare con il movimento igienista e con tutte le entità associative che si richiamano all’alimentazione naturale.
Si verrà così a fondere armoniosamente, in conclusione, razionalità scientifica e motivazione etica, soddisfacendo in tal modo, globalmente, tutte le esigenze psicofisiche dell’uomo. Solo così, mi sembra, potremo a giusto titolo fregiarci dell’appellativo specifico e sottospecifico di “sapiens sapiens”, che accompagna il nostro nome generico di “Homo”. 

Permettetemi di terminare con una mia riflessione, che può sembrare immaginifica, ma che ritengo fermamente ancorata ad un reale divenire in atto. Mi piace, cioè, immaginare gli attuali oltre 5 miliardi di uomini disposti su una scala lunghissima, ogni gradino della quale sia occupato da un essere umano. Oltre cinque miliardi di scalini. Tutti questi uomini sono impegnati nel “viaggio di ritorno all’alimentazione naturale”, viaggio lunghissimo, che dura già da parecchio. Ogni gradino rappresenta il punto al quale l’uomo che lo occupa è giunto nel faticoso recupero di tale alimentazione. Questo recupero è faticoso perchè l’uomo deve superare pregiudizi, forza delle abitudini errate, ostilità, conformismi, suggestioni, tentazioni, disinformazione, cedimenti della volontà di andare controcorrente, ecc. E tuttavia tutto è in movimento e il ragionamento, completato e sostenuto dalla motivazione etica, subentrato al posto del soffocato istinto, fa perseverare l’uomo nell’azione di bonifica della propria alimentazione. A misura che un individuo realizza un sia pur modesto, o anche modestissimo, progresso alimentare o etico, passa da un gradino a quello superiore e poi da questo ad un altro ancora più alto, e così ancora. 

Mi piace anche pensare che le zone terminali superiori della scala siano occupate dai fruttariani che sono riusciti a coniugare, nell’alimento, la massima eticità con l’optimum dei bisogni naturali nutrizionali dell’individuo, essendo il frutto carnoso e dolce l’unico alimento biologicamente adatto all’uomo. 

Tutti siamo, così, impegnati, chi velocemente, chi lentamente a liberarci da una alimentazione irrazionale, antinaturale e cruenta, che ci ha portato la violenza, la infelicità, l’odio, la sofferenza dovuta alle malattie, la morte prematura, la guerra, ecc. 

Siamo, quindi, tutti in viaggio, viaggio lunghissimo, lunghissimo…. 

Più alto è il gradino occupato in questa lunghissima scala da ognuno di noi, tanto più grande deve essere la nostra pazienza e la nostra comprensione nei riguardi di chi è ancora dietro di noi e che dobbiamo aiutare a salire, con amore, tanto più che c’è anche chi sta più avanti di noi e dal quale dobbiamo apprendere, con umiltà e con riconoscenza.
 

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Nonostante la manifestata intenzione di dare al presente lavoro i limiti di una breve, prima presentazione della “Lega per l’alimentazione viva”, non si può concludere tale presentazione senza le seguenti note.
Abbiamo accennato prima, qua e là, al biocentrismo, da sostituire alla visione antropocentrica della vita che tanto ha danneggiato sinora l’uomo il quale da una siffatta distorta angolatura ha ritenuto di trarre il diritto di dominare e di sconvolgere tutta la natura, di schiavizzare gli altri animali, di ucciderli e di mangiarne i cadaveri.
Ebbene, i tempi sono fortunatamente cambiati e le recentissime scoperte dei due biologi americani Sarich e Wilson hanno sancito anche sul piano scientifico la inaccettabilità dell’antropocentrismo, dopo che tale inaccettabilità era stata decretata da tempo su un piano squisitamente etico.
Occorreva però in Italia una accettazione ufficiale del biocentrismo da parte di un ministro della Pubblica Istruzione ed è ciò che felicemente è avvenuto ad opera del ministro Galloni il quale con la famosa circolare n. 49 del 4.2.1989, stabiliva fra 1′altro che “L’educazione ambientale deve stimolare negli studenti una particolare sensibilità per i problemi legati all’ambiente, al fine di CREARE UNA NUOVA CULTURA CHE TRASFORMI LA VISIONE ANTROPOCENTRICA DEL RAPPORTO UOMO-NATURA IN QUELLA BIOCENTRICA CHE CONSIDERA L’UOMO QUALE COMPONENTE DELLA BIOSFERA”.
Questo documento è di portata veramente rivoluzionaria, perchè radicalmente innovativo nel campo della educazione delle future generazioni. Purtroppo esso è rimasto inspiegabilmente inattivato e, data  la sua  fondamentale importanza,  la    ”Lega per l’alimentazione viva” si propone di renderlo operante al più presto possibile”.

 

Dicemmo che l’uomo preistorico fa costretto, da vegetariano, a diventare carnivoro a causa degli stravolgimenti climatici che colpirono le terre da lui abitate. 
Esistono però ogi animali vegetariani che, a differenza dell’uomo, non si sono allontanatl così radicalmente dalla loro alimentazione vegetariana originaria, come purtroppo facemmo noi. Ebbene, dando un rapido sguardo a questi animali, ci accorgiamo che: 

l. Gli animali più forti e resistenti alle fatiche fisiche sono vegetariani. Ad esempio, quelli che 1′uomo ha sempre sfruttato per eseguire pesanti lavori: bue, cavallo, mulo, asino. Ed ancora : l’elefante, il rinoceronte, l’ippopotamo, le scimmie antropomorfe (gorilla, scimpanzè, ourang-utan, siamango), ecc. 

2. Gli animali più prolifici sono ve-getariani (ad es. il coniglio). 

3. Gli animali più longevi sono vegetariani (ad es. l’elefante). 

4. Gli animali più pacifici sono vegetariani: tutti gli erbivori e tutti i frugivori-fruttariani.

Fonte

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