Intervista a Giuseppe Grasso, il medico che si ammalò di tumore

aloe-vera1INTERVISTA A GIUSEPPE GRASSO

trasmissione BORDER NIGHTS – 28/04/2015

Fabio: Volevo chiedere intanto a Giuseppe se ci può descrivere che tipo di attività medica svolge.

Giuseppe: Ho svolto per molti anni l’attività di neurochirurgo in ospedale. Poi, per ragioni di salute legate a una cardiopatia, nel 2002 ho dovuto smettere di lavorare in ospedale e attualmente lavoro privatamente. Questa di neurochirurgo è stata un’esperienza fondamentale, però anche molto limitata, perché purtroppo la super specializzazione in cui la nostra medicina è suddivisa impedisce di avere una visione globale. Per cui in campo oncologico mi sono trovato completamente spiazzato: ecco perché mi sono trovato dalla parte del paziente, avendo anche le idee non particolarmente chiare in mente su quelle che potevano essere le prospettive di prognosi e di cura. Mi sono trovato, proprio esattamente come diceva Paolo, ribaltato dalla posizione di medico a quella di paziente: è chiaro che in una situazione del genere non si ha la possibilità di andare a fare una verifica personale di tutti quelli che sono i farmaci e i protocolli, perché ovviamente bisognerebbe perderci un sacco di tempo; tempo che non si ha a disposizione quando bisogna prendere delle decisioni rapide. Quindi subentra il fatto che necessariamente bisogna fidarsi e mettersi un po’ nelle mani degli altri, e questa è la posizione tipica del paziente. Ecco in che senso era giusta questa osservazione di Paolo.


Fabio: Quando hai scoperto di avere un tumore e, se possiamo chiedertelo, in quale parte del corpo?


Giuseppe: Un tumore polmonare. L’ho scoperto a luglio dell’anno scorso. Si trattava di una polmonite, la febbre era andata via con gli antibiotici, ma l’immagine di opacità polmonare non si era risolta; allora approfondimento con la TAC e diagnosi di un tumore ad elevato grado di malignità. Un tumore raro, peraltro: un tumore neuroendocrino, in cui le conoscenze non sono molte. Però purtroppo a quel punto, essendo localizzato vicino a grossi vasi e a strutture importanti, non era immediatamente operabile e bisognava che si riducesse di volume; così aveva detto il chirurgo. Ho seguito l’iter tradizionale: quando il chirurgo mi ha detto che dovevo fare una chemioterapia per ridurlo di volume, ho seguito questa indicazione e ho fatto la chemioterapia. Ho fatto tre cicli di chemio con un risultato nullo, nel senso che il volume del tumore è rimasto sostanzialmente invariato. Grazie a un mio carissimo amico che per ragioni familiari aveva avuto problematiche del genere, sapevo che questo tipo di tumore è sensibile alla somatostatina, che è uno degli ingredienti essenziali della terapia Di Bella. Fin dall’inizio avevo chiesto se mi potevano dare la somatostatina, ma chi mi seguiva dal punto di vista oncologico disse che era meglio prima ridurlo con la chemio e poi contenerlo con la somatostatina; e io ho lasciato fare quello che mi si diceva di fare. Purtroppo il risultato non è stato quello di una riduzione di volume; a quel punto, nonostante mi avessero ribadito che bisognava fare un altro ciclo di chemioterapia – che peraltro mi aveva dato dei seri problemi cardiaci – io ho insistito per la somatostatina e così è stato. Quindi ho iniziato finalmente la terapia Di Bella, che come molti sapranno era stata pesantemente osteggiata, e che attualmente invece la stessa medicina convenzionale ufficiale ha in qualche modo riabilitato.

Questo è stato l’iter iniziale. Lungo questo iter, io che già conoscevo Paolo perché ci eravamo parlati telefonicamente per tutt’altre questioni un anno prima – c’eravamo parlati per un’eventuale conferenza sul tema della massoneria – apro il suo blog (che spesso vado a sfogliare perché ci sono sempre cose interessantissime) e vedo che c’è la pagina di apertura proprio sulle terapie dei tumori, utile perché dava una carrellata informativa di cui i pazienti possono giovarsi. Allora l’ho contattato per chiedergli qualche consiglio, e da lì è nato il nostro rapporto vero, perché prima era stato solo un rapporto telefonico estemporaneo. Ho trovato in lui un amico vero, una persona che mi è stata vicina, non solo con la presenza umana che è fondamentale, ma anche con dei consigli e con delle indicazioni nell’ambito di quelle che sono le terapie non convenzionali, che è difficile riuscire a reperire navigando in rete senza un minimo di discernimento. Quindi, grazie a queste sue indicazioni, oltre che di quest’altro mio amico medico, ho iniziato ad aggredire un po’ il tumore a tutto campo, a 360 gradi. Purtroppo all’inizio c’è stato un peggioramento, che è culminato a febbraio con un aumento di volume del tumore, sempre senza metastasi in giro, però molto minaccioso per le strutture vicine, tra cui il cuore. Quello è stato un momento per me bruttissimo, perché mi avevano ricoverato in pronto soccorso e dimesso con una prognosi pessima, dicendomi che ero in fin di vita. Fortunatamente questi miei amici medici mi hanno aiutato, insieme a un cardiologo di mia fiducia, a rimettere a posto la situazione cardiaca; nel giro di un giorno o due il cuore, che è l’elemento fondamentale in una situazione del genere, ha ripreso a funzionare bene.

A quel punto abbiamo inserito, oltre alla Di Bella che stavo già facendo, tutta una serie di terapie integrative, tipo la vitamina C a dosi molto elevate per flebo, che sto tuttora continuando, e soprattutto una dieta particolare a base di estratti vegetali. Io mi nutro solo con estratti di frutta e di verdura, integrati da qualche nocciolina, da ormai quasi tre mesi. Certamente ho perso peso in maniera considerevole, però lucidità, forza, energia sono aumentate. Nello stesso tempo ho ripreso a lavorare e a uscire e, sempre restando dal punto di vista puramente clinico, anche la funzionalità del polmone che era stato colpito dal tumore, che prima era ridotta di due terzi, adesso è ridotta – a dir tanto – di un terzo. Quindi ho avuto un miglioramento. Ho abbandonato l’ossigenoterapia, la uso soltanto di notte a titolo precauzionale, mentre tutto il giorno sto senza ossigeno. Ho ripreso a uscire, sono andato pure in tribunale (perché io adesso, non facendo più il neurochirurgo ospedaliero, nella mia attività privata ho molte attività di tipo medico-legale). Quindi sono in una fase di buona ripresa. Poi vedremo la prossima TAC, nel senso che siccome l’ultimo episodio di sconcerto (quello che mi ha portato in pronto soccorso) era stato legato all’emozione che avevo avuto per il responso della TAC, tendo a postporla, quindi penso che la farò verso giugno. Ma intanto gli indicatori clinici sono tutti concordi nell’indicare una situazione di miglioramento.


Fabio: Come ha reagito il personale medico tradizionale che è stato a contatto con te? Come ha preso sia questo tuo cambio di percorso che questi risultati poi ottenuti?


Giuseppe: Per quanto riguarda il cambio di percorso, nel senso di passare alla somatostatina e alla Di Bella, non ci sono stati soverchi problemi, se non qualche resistenza iniziale, perché per fortuna mia il tipo di tumore neuroendocrino, anche secondo la medicina ufficiale, è sensibile alla somatostatina. Per cui questo è un tasto molto dolente. Nella sfortuna, sono stato fortunato perché ho avuto la possibilità di farmi fare il piano terapeutico: il che significa che non pago questa somatostatina, che costa da sola 1300 euro al mese. Tutto il resto ha un suo costo che non è indifferente, però i 1300 euro sulle tasche di una persona non particolarmente abbiente pesano. Quindi sono riuscito per puro caso a ottenere una parte di queste terapie con l’assistenza sanitaria, e questo grazie a un altro oncologo che aveva una visione un po’ più ampia, il quale mi aveva detto: “Hai ragione. Se questi tre cicli non sono serviti, è meglio che passiamo alla somatostatina”. Peraltro io sono stato da un luminare della chirurgia toracica, il quale quando ha visto che avevo fatto i tre cicli di chemioterapia, è saltato sulla sedia e ha detto: “Ma mi chiedo come mai te li abbiano fatti! Perché è noto che nei tumori polmonari, e in questo in particolare, la chemioterapia non serve a niente”. Quindi questi sono anche i momenti di amarezza… Diceva: “Mi chiedo come abbiano potuto farlo a un collega, oltretutto”.



Fabio: Pur sapendolo? Loro lo sanno questo?


Giuseppe: Lo sanno, lo sanno tutti. Non lo sapevo io, perché non ero andato a documentarmi, essendo entrato un po’ nella mentalità del paziente, il quale dice: “Sono in buone mani, mi fido, faccio quello che mi dicono”. Anche il chirurgo aveva detto di fare la terapia adiuvante per ridurre il volume. Quindi vado dall’oncologo che somministra la chemioterapia e faccio quello che mi dice. Io ero convinto di fare una cosa utile, ero speranzoso nel fatto di vedere il tumore ridotto. Ci si chiede come mai uno prenda questa strada… Perché? Perché è la strada che seguono tutti. Perché è la strada che la scienza ufficiale ti indica. Poi, certo, se vai a leggere e a rovistare nella bibliografia trovi – come ha detto questo illustre cattedratico – che non serve a un bel niente. Soprattutto non serve poi reiterarla, come mi era stato suggerito in un primo momento. È da lì che io mi ero ribellato, perché avevo detto no, non ne ho avuto beneficio, ho avuto solo uno svantaggio a livello cardiaco, essendo io già cardiopatico, quindi la mia posizione è stata: no, assolutamente no. Nel frattempo, dimenticavo di dire che sto seguendo anche un ciclo di terapia a base di fitoterapici e prodotti omeopatici che mi ha dato un medico, il dottor Iero di Firenze, il quale si è impegnato moltissimo, insieme al dottor Santi, che è quello che mi ha fatto applicare il protocollo con le flebo di vitamina C; sono state entrambe delle persone eccezionali perché si sono prodigate, e sono stato felice di poter dare loro queste prime buone notizie, anche se sono arrivate dopo un momento un po’ tragico in cui ero convinto di avere due o tre giorni di vita.

Però si vede che la tenacia a un certo punto trova un premio alla fine, perché io non mi ero rassegnato all’idea di morire, proprio non mi ero rassegnato per niente, anche se mi ero reso conto della gravità della situazione. Credo poi anche qui che la psiche abbia un effetto e un’importanza decisiva: alla fine è il nostro cervello che ci fa orientare verso la guarigione o no. Il fatto che noi abbiamo dei motivi validi per vivere, che sentiamo dentro di noi… E questo cosa significa? Significa quello che diceva Paolo: l’amicizia, l’affetto delle persone, il fatto di essere convinti di significare qualcosa per qualcuno, ha un’importanza decisiva. Poi, che non sia la psiche a fare tutto, è ben vero: io avevo anche individuato dei conflitti alla base di questo sviluppo del tumore, perché avevo consultato un medico che segue le teorie di Hamer, e secondo questo schema, avendo individuato il conflitto – che probabilmente era quello – avrei dovuto essere già guarito a ottobre; invece non era vero. Mi era stato detto: “Tu sei già guarito, potresti anche non fare più niente, sei già fuori pericolo”. Le cose non stavano in questi termini; però questo non vuol dire che effettivamente un conflitto psichico alla base non ci fosse stato e che avesse avuto la sua importanza.

Io credo che sia una malattia in cui tanti fattori convergono: non ce n’è uno solo, ce ne sono parecchi. Ed è per questo che a mio avviso è importante – e questo è il grave difetto del nostro sistema informativo sanitario – che la gente sia informata di quali sono le terapie anche non convenzionali che possono essere messe in campo, perché l’ammalato di tumore è praticamente abbandonato. È abbandonato nelle mani di una macchina che sforna determinati protocolli, e tanti saluti. Questa è la situazione triste in cui versiamo. Teniamo conto che i tumori sono malattie molto diffuse; il nostro sistema sanitario nazionale spende risorse enormi per malattie poco diffuse e lascia sguarnito un campo che purtroppo coinvolge un grandissimo numero di persone.


Fabio: Mi ha colpito anche un’altra cosa di ciò che ha detto Giuseppe. Che il tumore non ha una sola origine, una sola spiegazione, quindi non può essere una sola la risposta. Probabilmente per alcune persone può anche bastare dire “tu non sei malato” oppure individuare il conflitto che può aver scatenato, però non può essere solo quello. A volte c’è un limite un po’ settario da parte di alcuni ricercatori di chiudersi di fronte ad interfacce di altre tipo, come può essere quella dell’alimentazione o altri tipi di approcci psicologici.



Paolo: Sì, questo è un punto importante. Ogni cosa ha un possibile limite. Non esiste un metodo perfetto, una cura perfetta, un approccio perfetto, un medico perfetto. Ci sono tante possibilità e uno deve mettere in campo quelle migliori per il proprio problema. Ora, finché è un raffreddore e uno non mette in campo il miglior risultato ottenibile per un raffreddore, non è un grosso problema. Purtroppo nel campo del tumore c’è la differenza tra la vita e la morte, quindi bisogna assolutamente adottare un altro approccio.

È stato molto importante, secondo me, il momento della seconda ricaduta di Giuseppe, cioè quando a un certo punto il polmone aveva infiltrato il cuore ed è stato portato all’ospedale. Lì sostanzialmente i suoi colleghi dicevano: “Ok, ha poche settimane o pochi giorni di vita”. Ci siamo sentiti e ricordo che io gli chiesi: “Giuseppe, ma che cosa ti propongono i tuoi colleghi?”. E Giuseppe ha risposto: “L’hospice”, che è il posto dove vanno i malati terminali a morire, quando non ci sono più cure. Allora io ho fatto una risata e Giuseppe, che ha anche un certo senso dell’umorismo, ha riso con me. E io gli ho detto: “Ma Giuseppe, lo sai benissimo che non è questo il momento per andare in un hospice. Lo sai, no, che ci sono ancora degli spazi di manovra?”. E lui mi ha detto: “Sì, però bisogna stare attenti a non fare errori, perché questa volta un errore può essere fatale”. E quindi a quel punto io sono andato a Brescia a casa sua per una settimana, insieme a Stefania, per aiutarlo a recuperare quella lucidità che in quel momento gli mancava e per dirgli tutto quello che doveva fare. Ovviamente in quel momento era anche in uno stato fisico abbastanza debilitato, quindi non riusciva a reagire a questa situazione in modo fermo e deciso come avrebbe avuto bisogno. Da lì abbiamo cominciato il protocollo D’Abramo e la dieta, ed è cominciata la sua lenta ripresa. Da questo momento cruciale si trae anche una morale importantissima: non esiste la persona che è incurabile e per cui non c’è nessuna possibilità; in realtà c’è sempre una possibilità, siamo solo noi che possiamo non trovarla. In quel momento io e Giuseppe l’abbiamo trovata nell’unione del protocollo D’Abramo prescritto dal dottor Santi, insieme a una dieta a base di succhi e centrifugati che propone il dottor Paolo Rege-Gianas.

Quindi questo momento secondo me riassume bene la situazione di confusione in cui si trova un paziente terrorizzato da una sentenza di morte che, anche se non te lo dicono espressamente, c’è. Però l’invito per chi ascolta è: non fermatevi a questo, perché delle volte vi dicono che non c’è niente da fare, ma spesso invece c’è qualcosa da fare. E comunque questo qualcosa va sempre cercato: anche se fosse vero che non c’è, comunque va cercato fino all’ultimo. Per me un’altra assurdità del sistema in cui viviamo è la presunzione e l’arroganza di alcuni medici, nel dire: “Non c’è niente da fare, lasciate la persona morire”. Eh no! La persona forse ha poche probabilità, ma uno deve cercare fino all’ultimo la possibilità di uscire. Perché non ci si può comportare così, dicendo “ma no, tanto non c’è nulla da fare”. Esistono addirittura i miracoli, e quindi uno potrebbe almeno sperare in un miracolo, in casi estremi. Ma non si può mai dare una persona per vinta, anche perché psicologicamente la diagnosi di morte dà una botta al paziente, ed è una cosa da cui difficilmente ci si riprende.

[Giuseppe: …un colpo di grazia!]

Io credo – questo confermerà poi Giuseppe se è vero o no – che forse gli è servito molto il mio aiuto, più dal punto di vista psicologico chiaramente, perché ci siamo fatti una bella risata su questa sentenza di morte. Sono andato lì e gli ho detto: “Ora tu stai tranquillo, che comunque non muori per un bel po’”. E infatti sono ormai due mesi e mezzo che c’era stata questa sentenza, e questa morte non c’è. Anzi, c’è una regressione – almeno apparente – del tumore; comunque c’è un miglioramento complessivo del suo stato di salute. Poi vedremo in futuro esattamente qual è l’andamento del tumore e quant’altro, però sembra sicuramente in netto miglioramento. Con – credo – sorpresa e stupore da parte dei suoi colleghi attorno che invece pensavano che non ci fosse nulla da fare.



Giuseppe: Certo. Ecco, giustamente tu, Paolo, dicevi che è stato un momento cruciale ed è stata essenziale la riacquisizione di una lucidità da parte mia grazie alla tua presenza. In questo senso è stato prezioso il fatto che tu sia venuto qui a Brescia e ti sia inserito in maniera fattiva ed estremamente positiva in questo percorso, perché io non ce l’avrei fatta, date anche le condizioni fisiche e di confusione in cui mi trovavo. Mi veniva in mente, a proposito della cosa che tu accennavi, al fatto di fidarsi dell’esperto… Dicevi tu all’inizio che io ho dei forti interessi anche in campo politico… C’è sempre una differenza fra quello che uno afferma, fra quello che la nostra superficie, la superficie del nostro spirito assorbe e assimila, e quello che si sedimenta nel profondo. Vale a dire: io, che seguo una corrente politica che vede il difetto principale della scienza moderna nella settorializzazione, quindi nella mancanza di una visione globale… quindi nell’emergere di queste figure dei super esperti, e le critica in maniera violenta… Io, che seguo questo tipo di corrente di pensiero, io sono andato a fidarmi del super esperto. Cioè, dentro di noi, nonostante quello che noi diciamo, ci sono delle convinzioni più profonde che vengono mutuate dall’ambiente, da quello che normalmente la gente fa e pensa. Noi non siamo esattamente quello che crediamo di essere. Noi crediamo di essere critici, lucidi, magari avversi a un certo sistema di pensiero asservito ai poteri forti; in realtà non lo siamo fino in fondo. In realtà le stratificazioni, le forme di pensiero e di convinzioni che emanano da questi poteri forti condizionano anche noi, anche coloro che vi si oppongono. Vi si oppongono molto spesso a parole, perché a volte, arrivati al momento della verità, uno si appoggia sulle idee dominanti, su quello che normalmente si pensa e si fa. Questa è una delle lezioni che io ho tratto dalla mia vicenda: cioè che alcune mie convinzioni evidentemente non erano sufficientemente radicate nel profondo, erano delle convinzioni più superficiali che profonde; adesso spero che abbiano messo delle radici più importanti.


Fabio: Oltre al tipo di percorso che si segue e alla vicinanza di una persona come Paolo, mi sembra fondamentale una grande forza di volontà, che Paolo mi ha sempre raccontato di te, Giuseppe, e che si capisce anche da queste parole. Anche questo poi fa un’enorme differenza, perché tante altre persone, un po’ perché il sistema non ti permette di arrivare a certi tipi di conoscenza di queste strade alternative, e un po’ perché – come ci ha raccontato a volte Paolo – anche quando gliele metti di fronte, certe persone o i loro parenti preferiscono continuare e neanche provare queste strade. Quindi c’è poi anche la volontà della persona, fondamentalmente.



Giuseppe: Certo, sicuramente. Quello che io rimproveravo a me stesso è che non è che non ci fosse questa volontà, ma che, a giudicare col senno del poi, è stata un po’ troppo timida ed esitante, mentre mi sarebbe piaciuto che fosse stata più in evidenza, più forte, più decisa fin dall’inizio; invece anch’io mi sono un po’ lasciato condizionare dal modo di pensare più diffuso. Eh vabbè… Si impara. Se si vive, si vive per imparare, e io spero di vivere e di mettere a frutto anche queste lezioni.



Paolo: Diciamo una cosa, Giuseppe e Fabio. Sì, sicuramente Giuseppe poteva avere una maggiore volontà, ma credo che questo sia un discorso che si può fare per tutti. Poi uno ascolta Giuseppe come parla, in questo modo molto pacato e riflessivo, quindi può venire quasi l’idea che magari non sia una persona così decisa. Ma se uno guarda a ritroso quello che è successo, è vero che Giuseppe è entrato in un momento di confusione, ha fatto degli errori nel fidarsi di alcuni tipi di terapie – che è una cosa assolutamente comune, di cui forse non si può neanche fare troppo una colpa – ma a un certo punto ha avuto la forza e la lucidità necessarie per dire: “No, un momento. Sono medico, sono circondato da amici medici, ma c’è qualcosa che non va in tutto quello che so e in quello che sanno anche gli altri”. Quindi ha individuato in me la persona che lo poteva aiutare – e sono un avvocato, che è un controsenso dal punto di vista logico che un medico si faccia aiutare, consigliare e affiancare in un percorso di cura da un avvocato. Eppure è riuscito ad avere la lucidità per dire: “Ok, comunque sicuramente Paolo ne sa più di altri. Dopodiché insieme sbroglieremo la matassa, ma Paolo può aiutarmi più di altre persone”. E questo secondo me denota comunque una grandissima forza e lucidità: lucidità nello scegliere la cosa che in quel momento era migliore, e forza per uscire da un pantano di condizionamenti di un certo tipo.

Nel caso suo, essendo medico, bisogna ricordare che erano più forti di altri, perché lui era ed è tuttora circondato da medici che ragionano in un certo modo. Molti di questi medici attorno a lui adesso sicuramente hanno cambiato in tutto o in parte le loro posizioni, ma in quel momento erano assolutamente contrari a determinate cose. Si sono opposti al protocollo D’Abramo e al protocollo del dottor Rege-Gianas… Quindi lui aveva una forza di opposizione molto superiore a quella dei pazienti normali. Il paziente normale delle volte dice: “Sai che c’è? Visto che il medico mi dà per spacciato, mi fido di qualcun altro”; e a quel punto può essere pure il vicino di casa. Ma nel caso suo non aveva un vicino di casa; aveva tanti vicini che sono tutti medici, quindi l’opposizione era fortissima, ma lui ne è uscito perché ha detto: “No, aspetta. Paolo, aiutami ad avere la lucidità di capire qual è la strada”. Insieme abbiamo individuato le strade, che erano il dottor Santi, il dottor Rege-Gianas, e una serie di altri medici con competenze diverse superiori rispetto agli altri. È lui che ha trovato la forza di fare questo, e l’ha trovata nonostante l’opposizione di una serie di suoi colleghi e – ricordiamolo pure – nonostante un’opposizione inconscia che veniva dagli studi di anni e anni di medicina. Un medico paradossalmente è più predisposto al condizionamento rispetto al cittadino normale. Un po’ come io nel mio campo, nell’avvocatura, vedo che spesso il cittadino riesce a credere a determinate situazioni di tipo giudiziario (omicidi in cui il colpevole non si trova, ecc…), mentre spesso ad essere più restio è l’avvocato, talvolta lo stesso magistrato, perché sono inseriti nel sistema talmente bene e da talmente tanti anni che non riescono a uscire facilmente da quella mentalità. E la stessa cosa vale per il medico. Quindi è vero che Giuseppe può dire a se stesso “beh, però se avessi avuto maggior forza di volontà…”, ma obiettivamente la cosa che ha fatto lui dal punto di vista della forza di volontà è grandiosa. Lui ha ribaltato completamente tutti gli schemi, nonostante una forza oppositiva che era straordinaria. Insomma, questa è un’esperienza eccezionale.

Il suo esempio, la sua storia, in questo libro che andremo a scrivere insieme e nella sua esperienza che stiamo raccontando, secondo me è talmente forte che servirà a tantissima gente più di qualsiasi altra storia sui tumori. Perché qua si parla di un medico che aveva un tumore; ci sono medici che hanno avuto tumori e che hanno scritto libri sui tumori, ma alcuni hanno scritto questi libri difendendo le terapie tradizionali che poi in alcuni casi li hanno portati alla morte. Qua invece c’è un ribaltamento totale, quindi secondo me la storia di Giuseppe è assolutamente rivoluzionaria, e sulle persone che ascoltano produrrà un effetto che io mi aspetto – poi vedremo se ho ragione o no – e probabilmente sarà veramente clamoroso. Perché la sua storia e la sua forza di volontà e il ribaltamento degli schemi che ha operato, sono veramente qualcosa di unico ed eccezionale. Quando racconto la storia di Giuseppe e del rapporto tra me e lui, molti dicono che sembra inventata; perché effettivamente è una storia molto paradossale, ma è proprio nel paradosso che si arriva a capire l’assurdità del sistema. Un po’ come quando a me dicono: “Ma che cosa fai dal punto di vista giudiziario quando ti chiamano in giudizio – come hanno fatto – per rispondere di diffamazione nella vicenda dei delitti del Mostro di Firenze?”. Cosa faccio io dopo tutta la mia esperienza? Nulla. Perché si capisce che il sistema è falso, quindi si ribalta completamente lo schema, e si fa una cosa che è totalmente contraria alla logica del sistema. Lui ha fatto la stessa cosa per la medicina, e devo dire che fino adesso una storia del genere non esiste in giro.


Fabio: Pensavo prima, quando raccontavi dei medici… È capitato a tutti di vedere o un reparto di oncologia o un day hospital oncologico, con le classiche poltrone dove tutti i giorni le persone vanno pensando di guarire… per qualcuno qualche effetto forse ci sarà anche, ma per la gran parte purtroppo no. Il contrasto tra questa tua esperienza e poi la quotidianità di tutti i soldi che vengono investiti in chemioterapici e nelle cure connesse, è molto forte.



Giuseppe: Certo. Penso che quello sia il punto cruciale: il business della grande industria farmacologica, che si impernia molto spesso proprio sui chemioterapici. Perché i chemioterapici non sono una nicchia di mercato: è un mercato enorme, perché purtroppo quella oncologica è una patologia enorme. E noi non abbiamo la minima idea di quelli che sono i guadagni che, a spese del contribuente, le industrie farmaceutiche riescono ad accumulare grazie a questa grande organizzazione che per principio deve escludere, ridicolizzare e tarpare le ali a qualunque tentativo di terapia che sfugga al sistema fondato sulla chemioterapia e sulla grande industria. Se ci pensi, tutta la fitoterapia è basata sui prodotti naturali: i prodotti naturali non hanno brevetto, e quindi i guadagni sono minimi. Nulla a che spartire. Quindi in gioco ci sono questi interessi enormi. Come si diceva una volta, il capitale è timido per natura, ma se gli dai un interesse importante comincia a diventare aggressivo, e se l’interesse è enorme diventa una belva. L’attacco furioso che c’è stato da parte della medicina tradizionale nei confronti di tutte le terapie cosiddette alternative – a partire dalla Di Bella che è la più nota, ma anche tutte le altre – nasce dagli interessi; e quando gli interessi sono forti, gli attacchi diventano furibondi. Questa è la verità.



Fabio: Da quello che anche tu ci hai detto prima, oggi chi fa l’oncologo in ospedale, chi dirige reparti è ovviamente ben cosciente e consapevole di questo. Quindi va avanti per interesse personale?



Giuseppe: Fino a un certo punto, perché qui siamo alle ultime rotelle. Se a te all’università insegnano che ci sono i ciarlatani e ci sono le persone serie, e quello che è ciarlatanismo deve essere combattuto, mentre è una cosa seria lo spostamento minimo di sopravvivenza di un mese che si può avere secondo le statistiche con la chemioterapia, allora tu stesso ci credi. Ovvero: costruisci delle balle in cui tu per primo credi.


F: Prima ci hai parlato di estratti. Qual è la tua alimentazione tipo nel dettaglio? Ad esempio estratti di quali vegetali, di quale frutta?


Giuseppe: Vegetali: soprattutto quelli a foglia verde, ma anche broccoli. Frutta: il lime, la mela, la banana, quindi anche la frutta dolce, non solo quella meno dolce. Poi gli spinaci, i sedani… Insomma, si cerca di variare un po’ il più possibile, in modo da ottenere un po’ tutti gli amminoacidi essenziali che sono sparpagliati in mezzo alla varia frutta e verdura: per questo non si deve fare una cosa monomorfa.


Fabio: Paolo, mi colpisce quello che Giuseppe dice di questi suoi colleghi, che pur sapendo che la chemioterapia non serve, l’ha dovuto poi scoprire da solo sulla sua pelle.


Paolo: Io credo che il messaggio più importante per gli ascoltatori sia quello che viene da questo paradossale ribaltamento di situazione, un po’ come quel libro che ho citato prima, “Dall’altra parte”: tre medici oncologi che a un certo punto si ritrovano con un tumore, trovandosi dalla parte del paziente, e quindi capiscono in poco tempo alcune cose che non avevano mai capito: lo sgomento, il timore, la paura… il ribaltamento di questi ruoli, il mettersi nelle mani dei colleghi. Ciò che accomuna me e Giuseppe è questo ribaltamento di ruolo da parte sua e il capire che a un certo punto la medicina ufficiale è impotente, o perlomeno ha varie lacune. E a quel punto sei comunque in uno stato di confusione che ti impedisce di essere lucido e di prendere in mano la tua cura. Quindi il rischio qual è? Spesso è quello di affidarsi a medici incompetenti, perché nella paura non sei abbastanza lucido. Lì entra in gioco il rapporto tra me e lui. A un certo punto Giuseppe mi dice sostanzialmente: “Paolo, io sono in uno stato di confusione. Ho le competenze mediche per poter uscire da questa situazione, ma non riesco a ragionare da medico distaccato. Quindi serve qualcuno che mi aiuti ad avere una certa oggettività e che abbia una certa competenza non in materia medica, ma in indirizzi, tipo di terapie, ecc…”. Io ho catalogato livello giornalistico una serie di possibili cure e possibili alternative, che poi propongo. Con Giuseppe le abbiamo scelte insieme. Io gli ho dato sostanzialmente quella lucidità necessaria che manca quando si sta dalla parte del paziente. Credo che questo sia un po’ il sunto del nostro rapporto. Il messaggio importante che secondo me arriva a chi ascolta la storia del rapporto tra me e Giuseppe è questo: si entra in uno stato di confusione nel momento in cui hai un tumore, ma devi uscire da questo stato di confusione e devi prendere in mano tu le redini della tua terapia, e non fidarti di una sola persona, come aveva fatto Giuseppe all’inizio. Dobbiamo sempre ricordarci che ogni persona ha dei limiti, ogni terapia ha dei limiti, ogni situazione ha dei limiti: quindi si deve evitare di affidarsi solo a una strada, ma bisogna cercare di ragionare un po’ con la propria testa e di prendere in mano le redini della propria terapia. Questo è il messaggio di fondo che mi piacerebbe trasmettere a chi ascolta la storia di Giuseppe e del rapporto tra me e lui.

Potrebbe essere anche un’altra la morale: non è sufficiente essere medici per poter capire esattamente tutte le lacune della medicina tradizionale in fatto di cure dei tumori. Non basta: occorre di più. Occorre una ricerca, un mettersi in gioco, un capire anche i limiti non solo della medicina ma di tutto il sistema in cui viviamo. L’altra parte che accomuna me e Giuseppe e che ci ha uniti in questo cammino è il riconoscere che ciascuno dei due era inserito in un sistema – io in quello giuridico, lui in quello medico – che è in gran parte falsato: dal gioco dei poteri forti, dall’informazione che non è completamente libera, da una serie di fattori. In ogni campo – che sia quello medico, che sia quello giuridico – bisogna cercare di recuperare una visione più limpida delle cose, perché in alcuni campi è in gioco la sofferenza e la vita della persona.

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