Il finto miracolo economico di Erdogan

 

di Fausto Corvino.
Fino a qualche giorno fa buona parte della stampa internazionale e la quasi totalità di quella italiana tesseva le lodi di una Turchia prodigio, in grado di produrre ricchezza e sviluppo come pochi altri hanno saputo fare in questi ultimi anni. Sembrava quasi che il modello turco dovesse servire da esempio a tutte quelle democrazie europee ingolfate in processi decisionali lenti e farraginosi. Alla base di questo convincimento c’era un dato macroeconomico molto chiaro. L’inarrestabile crescita del Pil, che ha portato la Turchia a diventare la 17ma economia al Mondo.
Poi sono arrivate le proteste di Piazza Taksim e la repressione violenta della polizia. Scene molto crude. Giovani spazzati via con lanci d’acqua, gas lacrimogeni, spray irritanti. Blindati inviati contro la folla di Gezi Park. Disturbatori di frequenze attivati per impedire la connessione a internet. Quasi 5.000 persone ferite e oltre 1.000 arresti. E improvvisamente la crescita economica è passata in secondo piano. I tratti autoritari del Governo Erdogan sono emersi in tutta la loro drammaticità, anche di fronte a un’opinione pubblica internazionale troppo distratta dai grattacieli che spuntavano come funghi nei quartieri ricchi di Istanbul.
La percezione generale della Turchia oggi è quella di un piccolo miracolo economico perseguito con metodi autoritari, che agli occhi di molti, forse la maggioranza, non possono trovare giustificazione in nessun prodigio macroeconomico. Ma siamo davvero sicuri che Erdogan abbia compiuto un miracolo? Il modello turco, se inserito in un contesto pienamente democratico, sarebbe davvero qualcosa degno di essere riprodotto altrove?
Se ci limitassimo a un’analisi superficiale, che guardi alla Turchia nel suo complesso e ignori i Turchi nella loro individualità, allora Erdogan sarebbe un campione del capitalismo moderno. Seguendo le indicazioni del Fondo Monetario Internazionale ha tirato fuori il suo Paese dalla difficile situazione in cui versava fino al 2001. In soli dieci anni il Pil ha triplicato il suo valore, le esportazioni sono aumentate di ben dieci volte, e la Turchia si è ritrovata con opere infrastrutturali da fare invidia agli europei che vivono sulla sponda nord del Mediterraneo.
E questo fino a pochi giorni fa bastava per celebrare il successo turco. In pochi, quasi nessuno osservatore esterno, si era però accorto che mentre la ricchezza cresceva il divario tra le classi sociali più alte e quelle più basse si andava pericolosamente allargando. Nel 2005 Goldman Sachs aveva incluso la Turchia tra i “Next 11 Countries”, i Paesi che a breve si sarebbero imposti come potenze economiche globali. Per la Turchia si parlava e si parla tuttora di “visione 2023”, il progetto dell’attuale Governo di festeggiare il centenario della Repubblica portando la Turchia tra le prime 10 economie al Mondo entro il 2023.
Nel frattempo però la Turchia, così ansiosa di primati, guadagnava posti anche in altre classifiche. Nella scala redatta periodicamente dall’OCSE per misurare le disparità di reddito all’interno dei 34 Stati membri, la Turchia occupa da tempo un pericoloso terzo posto. Pochi mesi fa l’Istituto Turco di Statistiche lanciava questo allarme. Il 20% più ricco della popolazione controlla circa la metà del Pil nazionale, mentre il 20% più povero si trova a doversi spartire un misero 5,8% delle risorse disponibili.
Per questo secondo 20% della popolazione è davvero difficile parlare di miracolo economico. Ma non è finita qui. Nell’ indice dello sviluppo umano redatto dalle Nazioni Unite la Turchia occupa un misero 90mo posto. La 17ma economia al Mondo, pronta a sfondare il muro delle prime 10 potenze globali, quanto a qualità della vita non è riuscita a tenere testa a Uruguay, Bielorussia, Palau, Romania, Albania, Libano, Grecia, e Costa Rica. Il problema più grande è quello dell’istruzione. Circa il 40% degli uomini e delle donne  non ha accesso alla scuola superiore. Soltanto il 12% della popolazione riesce a conseguire un titolo di laurea. Meno laureati del Messico, della Slovacchia e della Repubblica Ceca.
A ciò va poi aggiunto un’ attenzione quasi nulla rivolta alla sostenibilità della progettazione urbana. Istanbul è stata invasa da alberghi di lusso, uffici racchiusi in alti grattacieli e dozzine di centri commerciali. Ma è anche diventata la città europea con la minore percentuale di verde. L’ultimo baluardo bucolico nel centro cittadino era proprio quel Gezi  Park che gli abitanti della Capitale hanno deciso di difendere dalle ruspe, pronte ad abbattere gli alberi per fare spazio a un imponente complesso architettonico a pianta quadrata di stile ottomano.
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