I lavoratori bengalesi e quelle fabbriche in fiamme

Il Bangladesh è oggi il secondo esportatore mondiale di capi di abbigliamento a basso costo. Ma la fiorente industria tessile del paese asiatico, basata sullo sfruttamento selvaggio della manodopera, deve ora tener conto della reazione dei lavoratori che, stanchi di subire, chiedono salari più alti e il diritto a non rischiare quotidianamente la vita sul posto di lavoro.

di Marco Zerbino

È uno dei paesi in cui la forza lavoro costa meno, ed è per questo meta privilegiata delle committenze di grandi colossi della vendita al dettaglio come Walmart e Tesco e di marchi del vestiario a prezzi popolari come H&M, Primark e Gap. Una grande riserva di manodopera, all’80% femminile, impiegata principalmente (se si prescinde dal settore agricolo) nella produzione dei capi di abbigliamento low cost che arrivano a ondate sugli scaffali dei grandi magazzini di tutto il mondo.

Ma il Bangladesh non è solo sinonimo di lavoro a buon mercato e di abbattimento dei costi di produzione. Ciclicamente, il popoloso paese asiatico fa parlare di sé anche per tragedie immani, solo in alcuni casi di origine naturale. A fine aprile, ad esempio, circa un migliaio di lavoratrici hanno perso la vita nel crollo del Rana Plaza, un edificio di nove piani all’interno del quale confezionavano vestiti, nella zona industriale di Savar, situata alla periferia della capitale Dhaka. Ma incidenti simili, dovuti alla scarsa osservanza di norme di sicurezza elementari da parte dei datori di lavoro, sono tutt’altro che infrequenti.

Da qualche giorno, tuttavia, i lavoratori bengalesi delle locali industrie tessili – che operano principalmente su committenza dei grandi brand di cui sopra – sono sul piede di guerra. A partire dal 21 settembre scorso, migliaia di operaie e di operai del settore sono scesi in sciopero nei distretti industriali di Gazipur e Savar, dove vengono prodotti la maggior parte dei capi che vanno a costituire circa l’80% delle esportazioni del paese (il Bangladesh è il secondo produttore mondiale di vestiti dopo la Cina). Nella sola giornata di lunedì 23 settembre, circa 200.000 lavoratori si sono riversati nelle strade, scontrandosi duramente con le forze dell’ordine e dando alle fiamme diversi stabilimenti che i loro datori di lavoro avevano tentato di continuare a tenere aperti. Alla fine, circa 300 fabbriche hanno dovuto chiudere i battenti e rinunciare ad essere operative quel giorno per via delle proteste.

La richiesta principale di coloro che hanno scioperato era ed è tuttora l’innalzamento del salario minimo da 3,000 taka (38 dollari, circa 28 euro) a 8,114 taka (100 dollari, circa 76 euro) mensili, ma la rabbia e l’atteggiamento militante che hanno contrassegnato le manifestazioni sono senz’altro da ricollegarsi anche al ricordo recente delle tragedia di Savar e al sentimento di frustrazione causato dal fatto che le vittime dell’incidente non sono ancora riuscite ad avere giustizia (né i loro parenti a ricevere il risarcimento promesso).

Non è la prima volta, del resto, che il binomio bassi salari/mancanza di sicurezza provoca la rabbia dei lavoratori bengalesi. Sciagure come quella del Rana Plaza, purtroppo, non rappresentano casi isolati: solo pochi mesi prima degli eventi verificatisi a Savar, nel novembre del 2012, 117 persone erano morte (e molte di più erano rimaste ferite) nell’incendio divampato nella fabbrica Tazreen, che produceva magliette, polo e giacche per aziende come US Marines, Walmart e l’olandese C&A. Quanto alla richiesta di retribuzioni più dignitose, intense proteste da parte dei lavoratori si erano verificate già nel 2010, determinando alla fine la decisione di governo e imprenditori di aumentare il salario minimo dell’80% portandolo ai 38 dollari attuali. Quest’ultima rappresenta tuttavia una cifra irrisoria, se si considera che una tale retribuzione corrisponde alla metà di quella percepita dai lavoratori cambogiani dello stesso settore, e che l’unico paese del mondo a poter “vantare” stipendi ancora più bassi è, secondo uno studio pubblicato a dicembre dalla Japan External Trade Organization, la Birmania.

Nei primi mesi dell’anno in corso, il governo bengalese ha dato vita ad un comitato con il compito di stabilire entro dicembre il nuovo ammontare del salario minimo. È ormai chiaro, tuttavia, che gli operai tessili del paese non hanno alcuna intenzione di aspettare quella data per sapere se possono sperare di condurre un’esistenza leggermente meno al limite di quella attuale. Il ministro bengalese delle Spedizioni marittime, Shajahan Khan, che è anche un sindacalista in quanto presidente della Bangladesh Road Transport Worker Federation, e che per questo ha avuto l’incarico di fare da mediatore fra i datori di lavoro e gli scioperanti, ha dichiarato sull’onda delle proteste di aver proposto al comitato di anticipare la scadenza di un mese, in modo da riuscire ad avere una nuova cifra entro novembre.

La sostanza del problema, tuttavia, risiede, più che nei tempi, nell’entità dell’offerta che arriverà da governo e imprenditori. Non fa certo ben sperare i lavoratori il fatto che, finora, la controparte abbia fatto circolare cifre giudicate “ridicole” dai rappresentanti sindacali che partecipano al tavolo delle trattative. Lo scorso 17 settembre, i datori di lavoro si sono detti disposti a concedere un aumento del salario minimo di 600 taka, portando così la retribuzione base a circa 45 dollari. Decisamente troppo poco per gli operai, che chiedono di arrivare ad almeno 100 dollari mensili. Tale compenso, ha detto alla stampa il leader sindacale Shahidul Islam Sabuj, “è il minimo che possiamo chiedere. Un lavoratore avrebbe bisogno di ben altre cifre per condurre un’esistenza dignitosa”. Di qui anche, verosimilmente, l’accelerazione impressa alla trattativa dai lavoratori scendendo in piazza.

Tornando invece all’altra questione, quella della sicurezza sul posto di lavoro e dei risarcimenti per tragedie come quelle di Tazreen e di Savar, va segnalato che proprio nei giorni che hanno preceduto l’esplodere delle proteste è fallito il tentativo di trovare un accordo sulle compensazioni con i grandi marchi che usufruiscono dei servizi degli imprenditori tessili bengalesi (servizi che questi ultimi possono offrire a prezzi ultracompetitivi, visti i bassissimi salari che corrispondono a loro volta ai lavoratori).

Agli inizi di settembre, la federazione globale di sindacati IndustriALL – che ha cercato di quantificare l’entità del risarcimento dovuto ai lavoratori sopravvissuti e alle famiglie di quelli deceduti nei due disastri di cui sopra (fissandola a 74.571.101 dollari per il Rana Plaza e 6.442.000 dollari per Tazreen) – ha dato avvio a Ginevra, grazie anche alla cooperazione dell’Organizzazione internazionale del lavoro, ad una serie di colloqui sul tema delle compensazioni destinate alle operaie e agli operai tessili bengalesi, tentando di coinvolgere in essi alcuni importanti marchi di rilevanza globale.

Le manifestazioni degli ultimi giorni hanno ovviamente avuto l’effetto di richiamare nuovamente l’attenzione su queste trattative, il cui esito, finora, è stato però quanto mai deludente. Il 12 settembre scorso, ad esempio, solo nove grandi marchi, su un totale di 29 che erano stati invitati, hanno mandato dei loro delegati nella città svizzera per prendere parte alle discussioni riguardanti i risarcimenti connessi con la tragedia del Rana Plaza. Gli altri 20, fra i quali figurano, oltre a Walmart, anche Auchan, Benetton e Carrefour, non si sono neanche preoccupati di salvare le apparenze. Di fronte ad un simile atteggiamento, non stupisce che i lavoratori bengalesi stiano rapidamente arrivando alla conclusione che, per avere giustizia, possono fare affidamento solo sulle proprie forze.

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