Globalmente felici

consapevolezzaDa tempo sono convinto che, più o meno capillarmente, esista a livello internazionale una specie di “agente” in grado di diffondere e iniettare trasversalmente nella società alcuni pensieri, o prassi, o logiche che, radicandosi poi nel tessuto sociale, ne determinano l’evoluzione.

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Non mi riferisco tanto al mainstream mediatico (che assolve prevalentemente a compiti divulgativi), quanto a un vero e proprio “Grande Vecchio” della persuasione di massa: una specie, cioè, di enzima dell’omologazione, attivatore di attitudini spesso mediocrizzanti e capace di insinuare nelle prassi umane la voglia e il piacere di uniformarsi a precisi standard, definiti a priori per tutti, ma – spesso – nell’interesse di pochi.

No, questa volta Orwell non c’entra nulla! Mi riferisco, invece, al motivo per cui – per fare un esempio – avvengono queste cose: (1) campagne pubblicitarie che, più o meno simultaneamente, vanno a insistere tutte sui medesimi concetti (peraltro, annacquando le specificità); (2) valori etici dichiarati da molte aziende, che sembrano miracolosamente convergere; (3) standard espressivi (adottati sia da intere organizzazioni che, conseguentemente, da singoli); (4) comunicazione politica ormai uniformata a poche, identificabilissime linee-guida.

C’è in giro, inutile negarlo, una sorta di rassicurante omologazione…

Sono persuaso che questo “agente responsabile” sia rappresentato, almeno nel suo primo stadio, dalle società di Consulenza. Che cosa sono le società di Consulenza? Sono i colossi del cosiddetto knowledge-sharing e della strategia commerciale, cioè grandi multinazionali che, muovendosi sulla base di direttrici esclusivamente verticistiche, mirano a sensibilizzare il tessuto imprenditoriale della popolazione in base a logiche di convenienza collettiva.

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Premesso che una forma di… sensibilizzazione è già di per sé l’importo delle loro fatture (poche ore di meeting e poche slide in PowerPoint possono costare, in funzione del prestigio dei loro autori, anche cifre astronomiche), l’effetto della loro azione è esattamente quello di trasmettere e imprimere, nelle teste e nei cuori dei loro clienti, un preciso modus operandi, un modus cogitandi e – per esteso – un modus vivendi. E’ una forma di condizionamento molto capillare ma potentissimo: la struttura organizzativa, le dinamiche competitive, gli assetti normativi, gli obiettivi e le linee-guida, i benchmark con l’esterno e tante altre informazioni utili alla strategia, vengono profumatamente vendute da queste società, che se ne impossessano proprio grazie alla trasversalità del loro mandato: la medesima società di Consulenza, infatti, vende i suoi servizi a decine di clienti, dai quali acquisisce contemporaneamente le informazioni di ritorno, che vanno a comporre il patrimonio informativo oggetto stesso del servizio. (A chi volesse approfondire la questione, segnalo il bellissimo “Twilight manager”, una raccolta delle qualificatissime testimonianze di un ex consulente McKinsey che, a un certo punto della sua vita, ha deciso di… aprire il libro. Anzi: di scriverlo!)

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Passo ora ai tre aneddoti che mi hanno indotto a scrivere questo post.

1. Recentemente, una mia conoscente mi ha mostrato il video di un contest organizzato dalla società per cui lei lavora e realizzato da uno studio di videomaking, appositamente assoldato per lo scopo: nella clip, tecnicamente perfetta, sulle note di “Happy” di Pharrel Williams, capi e collaboratori – in un clima di esuberante e spensierata convivialità – si producono in balli, danze, sketch e sorrisi, con l’unico, evidentissimo scopo di trasmettere sia la gioia per il loro lavoro, sia quel “magico” rapporto di granitica compattezza che li unisce, ovviamente sotto il vessillo del logo aziendale. Insomma: la solita favola della “grande famiglia”, direttamente dagli anni Ottanta, ma impreziosita dalle nuove tecnologie e da nuovi codici espressivi. (Non ho vomitato, unicamente perché non mi trovavo a casa mia…)

2. Qualche giorno fa, m’imbatto in questa notizia:

Ovvio che la mia conoscente non lavora per la Fiat. Ovvio, quindi, che si tratti di due casi perfettamente analoghi, ma maturati in realtà completamente diverse. Solo un caso? Lo do per scontato. Ma l’episodio mi ha riportato alla mente l’ipotesi che, anche dietro a queste banali forme di comunicazione mediatica (negli effetti, non molto diverse dai vari meeting aziendali improntati al team-building), possa esservi una regia – o anche solo un condizionamento – comune e trasversale. Se non altro, l’esistenza stessa di questa canzone-tormentone, è un condizionamento…

3. Ma la cosa che mi ha fatto riflettere ancora di più – e che lascerei al vostro giudizio – è che, come forse qualcuno di voi ricorderà, alcuni mesi fa circolò in rete il video di Marina Shifrin, una ragazza divenuta una celebrità del web per aver girato in ufficio (dopo che tutti se n’erano andati) la clip in cui, ballando tra le scrivanie e sprizzando gioia da ogni poro, comunicava al suo datore di lavoro le proprie dimissioni:

Ecco, ipotizzare adesso che l’ipotetica regia occulta di cui parlavo all’inizio sia l’artefice della risposta (globale e sulle note di “Happy”) a quell’atto assolutamente eretico e blasfemo per la morale comune (come si fa a essere felici per… essersi dimessi?!?!?) è forse un tantino azzardato, me ne rendo conto. Ma è una pur strana coincidenza – o no? – che adesso il mondo del lavoro si affanni a comunicare all’esterno la felicità che pretenderebbe di saper trasmettere, calando questo messaggio nello stesso set (ufficio) e con le stesse modalità espressive (musica e ballo) di Marina Shifrin…! 😉

Quindi, che fare? Ballare perché si lavora (quasi sempre, in un clima di felicità posticcia) o ballare perché ci si dimette (quasi sempre, perché si inseguono le proprie aspirazioni)?

Ma soprattutto: tra Marina Shifrin e gli operai di Melfi, chi credete che sia stato libero di scegliere ciò che ha fatto?

Ancora una volta: essere ciò che si fa o fare ciò che si è?

thriller

di Andrea LLHT

Fonte

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