Cucchi, perché non possa più accadere

Il contributo di Ilaria Cucchi che qui pubblichiamo chiude simbolicamente la cronaca dei sette giorni trascorsi da suo fratello Stefano nelle stanze dello Stato, e ricostruiti puntigliosamente nel libro “Mi cercarono l’anima. Storia di Stefano Cucchi” di Duccio Facchini (Altreconomia edizioni, in uscita il 22 ottobre 2013). Ed è una conclusione amara, che affronta senza ipocrisie l’aspetto centrale che si ritrova nelle tristi storie degli “arrestati della notte”: l’esposizione pubblica del dolore da parte dei familiari. Uno strumento in realtà non voluto, temuto, a cui doversi rifare per costringere gli altri a guardare.

Per non rassegnarsi. Dedicato a tutti quelli che “se la sono cercata”

di Ilaria Cucchi

Detenuto in attesa di giudizio.
Forse l’aveva combinata grossa Stefano. Ma dobbiamo dire forse, perché per lui nessun processo è mai stato celebrato.

È morto di “giustizia”, molto prima della data fissata per l’udienza da quel giudice che per un’ora non lo aveva neanche guardato in faccia. Ignorando sul suo volto i segni più visibili del pestaggio appena subito, non cogliendo la sofferenza nella sua voce. E negandogli gli arresti domiciliari perché considerato un “albanese senza fissa dimora”.

Se quel giudice e tutti i presenti e tutti coloro, tantissimi e tutti appartenenti alle nostre istituzioni, che nei giorni successivi hanno avuto contatti con lui avessero guardato oltre il pregiudizio, oltre un’ottusa gerarchia che definisce alcuni come “ultimi” di cui non occuparsi, il corso degli eventi sarebbe stato diverso. Forse.

Quanti dubbi, quante domande che restano appese. In un sistema, quello della giustizia, tutto teso a nascondere, o a sminuire in maniera imbarazzante quando proprio è impossibile negare, le responsabilità delle istituzioni e dei loro appartenenti.

Stefano era un essere umano, ma negli ingranaggi della giustizia e prima ancora nell’immaginario della società benpensante questo viene dimenticato. Per quel meccanismo tanto crudele quanto emblematico di colpevolizzazione della vittima. E come lui tanti altri.

Ci sono tante vite, simili a quella di Stefano che ogni anno terminano nelle nostre carceri, nei commissariati, ad un posto di blocco, nei Cie.
Storie spezzate che a volte hanno un nome, un volto, una famiglia alle spalle, altre che si perdono in un oblio di indifferenza. E ancor più sono coloro che sistematicamente, negli stessi luoghi, subiscono soprusi, con una consuetudine che fa rabbrividire. E nell’indifferenza generale di quella società che vuole in qualche modo autoproteggersi ripetendosi
consapevolmente o meno che in fondo “se la sono cercata”. E anche l’indifferenza finisce con l’essere una forma sottile, vigliacca e diffusa di tortura e di complicità.

Un cittadino comune forse ha davvero pochi strumenti di fronte a questo. Ma il primo e il più potente, ed anche il più difficile, è trovare la forza di ribellarsi alle mille ipocrisie che di volta in volta vengono spacciate per verità assolute. Questo costa fatica e sofferenza, nel dover rivivere giorno dopo giorno quello stesso dolore, nella disperata ricerca del riconoscimento di quel dolore e di quel sopruso subito, ma evidentemente per molti di coloro che amministrano la giustizia, questo conta poco.

Conta davvero poco se in quelle aule di tribunale proprio noi che siamo le vittime di un sistema sbagliato, e che nonostante tutto continuiamo a credere in una giustizia che di fatto molto spesso ci abbandona, veniamo trattate come se fossimo i colpevoli. Disarmati, mentre i nostri morti dei quali con ogni mezzo cerchiamo di difendere il ricordo e la dignità vengono messi sul banco degli imputati. E nell’andare avanti capita che a volte ci sentiamo persino in colpa, nell’umano dubbio di tormentare la memoria dei nostri cari.

Non potrò mai dimenticare quando Fabio Anselmo la persona che nella nostra vicenda ha fatto la differenza, mi chiese di scattare quelle foto che ormai sono di dominio pubblico. Mia madre continuava a ripetere tra le lacrime che Stefano non avrebbe voluto farsi vedere in quelle condizioni terribili. Ed io le rispondevo che mio fratello non sarebbe dovuto finire in quelle condizioni. Che solo questo contava.

Oggi continuo ad interrogarmi sulle ragioni per cui la mia famiglia ha dovuto fare quella scelta. Per quale motivo se quella notte, in preda alla disperazione, non avessi cercato proprio quell’avvocato, Stefano sarebbe inesorabilmente morto di morte naturale. E comincio a pensare che, gesti che nessuno di noi è tenuto a fare, che nella vita mai vorrebbe fare, come l’esposizione perenne del proprio dolore, siano i soli strumenti che ci restino per poter aspirare ad un po’ di giustizia.

Comincio a credere che la giustizia non arriverà mai, da sola indipendentemente, sulla base dei principi sanciti dalla Costituzione, ma che solo attraverso quei gesti e quei percorsi che ti marchiano la carne, il vuoto, il silenzio, l’indifferenza e la rassegnazione, potrebbero essere rotti.

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