Iniziamo a parlare di riduzione del lavoro

timthumb.phpAbbiamo assistito ovunque a infinite campagne che promuovono il “lavoro” come un qualcosa a cui dobbiamo sempre essere a favore. Diversi testi e movimenti finalmente mettono in discussione quel dogma. Di sicuro il lavoro umano è sempre stato e resta il tallone d’Achille del capitalismo. Il mercato dipende da noi, dal nostro fare quotidiano: per questo non possiamo cercare l’incremento dell’automazione e delle realtà artificiali ma piuttosto un generale rallentamento. “Dovremmo costruire un mondo in cui possiamo ripartire da una nostra inerzia… – scrive Chris Carlsson – Come possiamo bilanciare la tecnologia e l’attività umana in una danza che riduca il lavoro il più possibile, mentre innalziamo la qualità di vita di coloro che lavorano, coloro che vivono le conseguenze sociali ed ecologiche di quel processo lavorativo e il circostante mondo naturale?…  Talvolta sembra che tali interrogativi siano risolvibili e già a portata di mano. In altri momenti sembrano così assurdi e utopistici che perdiamo la speranza. Ma la disperazione probabilmente è una sana risposta alla cupa realtà. Ogni giorno ci sono bellezza e creatività intorno a noi. Immaginiamoci di intraprendere un processo di reinvenzione della nostra vita basata su queste capacità e realtà, piuttosto che farci costringere dalle claustrofobiche possibilità che ci presenta questo mondo violento…”

photo_36576

di Chris Carlsson*

Il titolo di questo articolo è un vecchio slogan dei primi anni ’90, nei giorni in cui avevamo fondato delle disperate “organizzazioni” come la Committee for Full Enjoyment (Commissione per il pieno divertimento, anziché Full Employment, ossia piena occupazione) e il Sindacato locale di ladri del tempo 00. Era il periodo dell’ultimo anno di vita della rivista Processed World, pubblicata dal 1981 al 1994, che brillava con luce intensa sull’insipida inutilità della vita lavorativa quotidiana nell’America delle imprese, del non-profit, del sistema educativo, ma soprattutto degli emergenti uffici high-tech dell’epoca. Parlare di lavoro ci è sempre sembrato come rendere pubblico un terribile segreto, come rivelare una nascosta consapevolezza che l’imperatore è nudo, che il lavoro come lo conosciamo è principalmente una perdita di tempo se non addirittura un modo per rendere il mondo decisamente peggiore.

Per molti anni sembrava che in pochi ero disposti ad accettare l’argomento o, se lo facevano, solo dal punto di vista di un quadro di riferimento tradizionalmente di sinistra. Così abbiamo assistito a infinite campagne che promuovevano il “lavoro” come un qualcosa a cui dovevamo essere a favore, combattendo per sostenere dei sindacati palesemente corrotti ed inetti, e un’accettazione di base della nozione di crescita economica come qualcosa di buono e che i profitti capitalistici operano a beneficio di tutta la società. Persino in quel periodo la sinistra sosteneva che i lavoratori avevano solo bisogno che gli si ricordasse che erano parte della gloriosa classe operaia e che, forti di questa presa di coscienza, ne sarebbero naturalmente conseguiti dei radicali cambiamenti sociali. Alla luce delle moribonde ideologie che riguardano il dibattito su lavoro e lavoratori, non sorprende che l’enfasi neoliberista sulla “libertà” individuale e l’auto-imprenditorialità abbia influenzato di più le pratiche quotidiane delle persone di ogni altra offerta che venisse da “sinistra”.

Data la discontinuità del pensiero critico a sinistra in riferimento al tema del lavoro e dell’economia, è incoraggiante che finalmente siano iniziati a comparire alcuni nuovi libri che mettono in discussione tale situazione. I quattro scritti che andrò ad intrecciare in questo articolo, condividono una certa disperazione nella loro essenza, ma penso che la disperazione sia uno stato d’animo abbastanza comprensibile di fronte alla nostra difficile situazione. E non penso che disperazione voglia dire paralisi, né il vecchio spauracchio del “disfattismo”. Dobbiamo toccare il fondo prima di ricominciare di nuovo un qualcosa di fresco che possa scrollarci di dosso la depressione e la pesante paralisi del pensiero rivoluzionario (leggi anche Imma­gi­nare una svolta nella sto­ria di Franco Berardi Bifo, ndr).

Sono passati quasi due anni da quando ho affrontato l’argomento per l’ultima volta (Il rifiuto creativo dell’ideologia del lavoro). Ho portato alcuni nuovi scritti che allora mi avevano ispirato, dalla convincente critica di Miya Tokumitsu sulla premessa sottesa nello slogan “Fai quello che ami”, al The problem with Work”di Kathi Weeks, entrambi presi a riferimento in un paio di lavori che cito nell’articolo. I nuovi libri che ho appena passato al vaglio sono Cyber-Proletariat: Global Labour in the Digital Vortex di Nick Dyer-Witheford, The Mythology of Work: How Capitalism Persists Despite Itself di Peter Fleming, Inventing the Future: Postcapitalism and a World Without Work di Nick Srnicek e Alex Williams, e infine un lungo saggio contenuto in End Notes n.4 intitolato “A History of Separation: the Rise and Fall of the Workers Movement 1883-1982”.
Nel loro insieme, questi scritti aiutano a definire la situazione che dobbiamo affrontare, che non è facilmente riassumibile in una citazione o due. Gli sforzi secolari per promuovere un’organizzazione dei lavoratori, principalmente nei movimenti socialisti, comunisti e anarchici che sono sorti verso la fine del XIX secolo, dipendevano da assunti che non abbiamo mai analizzato a fondo per molto tempo. I compagni di End Note li hanno affrontati nel loro saggio, arrivando alla conclusione che, piuttosto che un’emergente coscienza collettiva basata su un’esperienza di lavoro condivisa come prevista da tutti a partire da Marx in poi, “ha vinto l’atomizzazione sulla collettivizzazione”. Essi ricollegano questa verità lapalissiana alla sfida al presupposto alquanto discutibile che Marx condivise con Karl Kautsky alla seconda Internazionale e con il bolscevico Leon Trotsky: “Per arrivare all’abolizione del proletariato, è innanzitutto necessario che ciascun individuo sia ridotto al proletariato. L’universalizzazione di questa forma di dominio è il precursore della fine del dominio stesso”. Ma le rosee aspettative sono andate in frantumi dall’attuale evoluzione della vita moderna. Nei primi anni del XXI secolo, End Notes riconosceva come i lavoratori ancora producono il mondo all’interno del quale vivono:

La società è ancora il prodotto di questi lavoratori: chi coltiva e distribuisce cibo, chi estrae minerali dalla terra, chi fa vestiti, macchine e computer, chi accudisce anziani e malati, ecc. Ma il legame che li tiene insieme non è più una cosciente solidarietà sociale. Al contrario, il legame che li tiene insieme è il sistema dei prezzi. Il mercato è la materiale comunità umana. Ci unisce ma solo nella separazione, solo per mezzo e nella competizione di tutti contro tutti (p. 160).

Il nostro mondo atomizzato e iper individualista, che noi percepiamo come plasmato da forze al di fuori del nostro controllo, è ben lungi dall’essere un mondo in cui la comunità della classe lavoratrice, o qualsiasi altro tipo di comunità, offre un sicuro paradiso o una vita piena di senso. Siamo tutti soli.

Attualmente, i lavoratori individuano il nemico che devono affrontare in diversi soggetti: le banche cattive e i politici corrotti, così come gli avidi. Questi, tuttavia, rappresentano solo un piccolo scorcio di una realtà più grande e terribile. La nostra è una società di estranei, impegnanti in un complesso insieme di interazioni. Non esiste un solo gruppo o classe che controlla queste interazione. Piuttosto, la nostra cieca danza viene coordinata in modo impersonale dai mercati. Il linguaggio che parliamo – per mezzo del quale ci sfidiamo l’un l’altro nell’oscurità – è il linguaggio dei prezzi. Non è l’unica lingua che possiamo ascoltare, ma sicuramente è la più rumorosa. È la comunità del capitale (p. 166).

È chiaramente un’analisi disperata. I lavoratori assumono una retorica populista per cercare di comprendere contro cosa combattere, ma il vero linguaggio e universo concettuale nel quale siamo immersi, ci rinchiude in una “comunità” basata sulla nostra espropriazione. E tuttavia, il lavoro rimane ancora il (vulnerabile, fragile) cuore del capitalismo. Così come ci riferiamo al cancro, ci affidiamo alla lingua per riferirci al lavoro come una condizione personale piuttosto che come fenomeno sociale e come risultato di scelte socialmente costruite e sforzi condivisi. Ma l’avversione verso una comprensione del tema del lavoro è iniziata, a livello sociale, un bel po’ di tempo fa. Il processo corrisponde con la costante perdita di orgoglio nel lavoro, che si è intensificata durante il picco dell’epoca del lavoro di fabbrica fordista quando chiunque avesse un po’ di cervello, trovava il lavoro noioso e insoddisfacente. La deindustrializzazione delle ultime decadi non è la causa del collasso dell’identità della classe lavoratrice, ma piuttosto l’acceleratore dell’atomizzazione sociale che era già in corso.

In Inventing the Future¸ Srnicek e Williams riconoscono come la storica dipendenza della sinistra dalla classe lavoratrice industriale come quadro di riferimento, sia stata superata dagli sviluppi storici, non da ultimo quanto accaduto all’interno della classe lavoratrice stessa.

Per la sinistra almeno, un’analisi basata sulla classe lavoratrice industriale era un modo potente di interpretare la totalità delle relazioni sociali ed economiche del diciannovesimo e ventesimo secolo, e in tal modo articolare chiari obiettivi strategici. Tuttavia, la storia della sinistra nel mondo nel corso del ventesimo secolo testimonia il modo in cui tale analisi non sia riuscita a occuparsi sia della gamma di possibili lotte di liberazione (basate su genere, razza o sesso) che della capacità del capitalismo di ristrutturarsi – attraverso la creazione del welfare state o delle trasformazioni neoliberiste dell’economia globale. Oggi, i vecchi modelli spesso vacillano di fronte ai nuovi problemi; perdiamo la capacità di comprendere la nostra posizione nella storia e, più in generale, nel mondo (p.14).

È difficile ora credere ancora all’idea secondo cui la classe lavoratrice sarebbe il motore della storia o che la lotta di classe segue una traiettoria teleologica verso la liberazione dell’uomo. L’evidenza di un secolo di guerre, barbarie, modernizzazione e radicali cambiamenti tecnologici e sociali non sembra averci portato più vicini alla rivoluzione. E tuttavia, il punto focale della nostra situazione è proprio il tentativo di trovare un senso della complicata relazione tra il nostro lavoro e il mondo che dobbiamo affrontare. Rivendicare il concetto di “proletariato” prima di buttar via la spazzatura della storia, è un passo utile e ciascuno di questi scritti lo fa a modo suo.

Srnicek e Williams definiscono il proletariato “sulla base della sua mancanza di accesso ai mezzi di produzione o di sussistenza e la necessità di un lavoro salariato per sopravvivere. Ciò significa che il “proletariato” non è solo la “classe operaia” né che si può definire in base al livello di reddito, la professione o la cultura. Piuttosto, il proletariato è semplicemente quel gruppo di persone che devono vendere il proprio lavoro per vivere – sia che siano impiegati che liberi professionisti” (il corsivo è aggiunto, p. 87). Ma una volta che ci si trova nello stato di proletario, i lavoratori dipendono dal lavoro salariato per poter sopravvivere, una dipendenza che verso la fine del XXI secolo è andata rapidamente erodendosi.

… spesso ci si dimentica di come Marx avesse ragionato sul fatto che l’espulsione della popolazione eccedente era parte della “legge generale dell’accumulazione capitalista”… Con il rapido procedere dei cambiamenti tecnologici, il già ampio numero di umanità eccedente è destinato a crescere. La base sociale del capitalismo come sistema economico – la relazione tra proletariato e datori di lavoro, con il lavoro salariato che funge da mediazione tra i due – si sta sgretolando (p. 92).

Dyer-Witheford offre una interpretazione aggiornata del termine “proletario”, che si fonda su un’affermazione basilare di società di classe:

il proletariato comprende non solo il lavoratore alla catena di montaggio o l’operatore di call center, ma anche la vecchia popolazione contadina strappata dalla propria terra senza necessariamente essere in grado di trovare un impiego, o i lavoratori espulsi dalla catena di produzione dall’automazione cibernetica e la comunicazione. Ora, come ai tempi di Marx, il proletariato denota l’incessante inclusione ed espulsione dal lavoro e la mancanza di lavoro, l’inerente precarietà o la classe che deve vivere di lavoro, una condizione che ha raggiunto un nuovo picco con la tecnologia globale (p. 13).

Scrivendo The Mythology of Work , Peter Fleming “anticipa la questione mettendo il lavoro e la condizione di classe al centro di una teoria critica del neoliberismo non all’interno del vecchio spirito della sinistra che vuole vedere ovunque l’importanza del lavoro, né della vecchia tradizione umanista che permea il concetto di lavoro con vecchie categorie antropologiche… Desidererei che il lavoro salariato capitalista non fosse il punto di demarcazione di tutte le altre lotte. Lo detesto come chiunque altro, in special modo ora che la maggior parte di questi approcci sono chiaramente inutili e anti-etici ai fini dei nostri bisogni collettivi. Ma il fatto rimane: per combattere il neoliberismo, il concetto di classe è LA relazione che dobbiamo affrontare, anche se attraverso la sua mediazione su un altro registro di differenze sociali e di dominazione (p.33).

Dyer-Witheford, nel suo Cyber-Proletariat, mette in evidenza il perché sia difficile ricordare il concetto di classe come una categoria fondamentale della vita moderna:

L’idea marxista di classe indica la divisione dei membri della società in base al loro posto all’interno di un sistema di produzione: capitalisti, diversi livelli intermedi fluidi o “classe media”, e proletari… Il punto è che il livello dominante espropria tutti gli altri. Dal momento che il concetto di classe identifica un processo predatorio, non sorprende che nessun messaggio è più frequentemente trasmesso attraverso gli organi di informazione della società, di quello per cui le classi non esistono. O che sono esistite, ma ormai superate. O che, laddove ancora esistono, sono completamente inoffensive (il corsivo è aggiunto, p.7).

Abbiamo tutta una rosa di scritti che danno la priorità all’analisi di classe e di lavoro anche se rompono con quegli assunti che sono stati tradizionalmente le basi di queste questioni. L’obiettivo di Dyer-Withefordl in Cyber-Proletariat, è di mostrare come nei primi anni del XXI secolo il capitale tende ad usare la classe lavoratrice globale per risolvere il problema del lavoro! La sua brillante analisi ci porta attraverso lo sviluppo della cibernetica per mostrare come un sistema emergente di “robot e reti, di robot in rete e di reti robotizzate” spinge il proletariato globale in un “vortice cibernetico”, spesso con la debole complicità della maggior parte degli oppressi. L’esempio più lampante è quello della telefonia mobile dell’ultimo decennio.

…. La telefonia mobile è una tecnologia paradigmatica per un nuovo livello globale di sussunzione capitalista che allo stesso tempo include ed espelle una vasta eccedenza di popolazione, sfruttando una costante condizione di lavoro flessibile e intermittente. (p.104)… il telefonino rappresenta un modo di far perdurare, non abolire, la proletarizzazione. È una tecnologia rapidamente adottata da una forza lavoro globale insicura e nomade, che deve fare continuamente i conti con la crisi, che in gran parte non ha accesso ai basilari servizi sociali, minacciata dalle guerre, disordini civili e disastri naturali tra fragili infrastrutture, dipendente da reti familiari o comunitarie che offrono quel supporto che né lo stato né il capitale fornisce. I cellulari sono divenuti una necessità in questo contesto perché le condizioni di vita e lavoro sono precarie. In questo senso, essi sono il manifesto di una circolarità tecnologica (p.121).

Diversi scrittori ci hanno ricordato come negli anni ’30 i lavoratori avessero lottato per le sei ore, principalmente per poter condividere il poco lavoro disponibile. Ma anziché concentrare gli sforzi condivisi per ridurre il lavoro, lo stato invece creò un ampio progetto che mirava alla creazione di posti di lavoro, molti dei quali produssero infrastrutture ancor oggi utilizzate, spesso esteticamente abbastanza belle (ved. il Living New Deal project per un ampio catalogo di questi lavori che ancora sono alla base della nostra vita quotidiana). Dopo la Seconda Guerra mondiale, le 40 ore settimanali divennero standardizzate ed è durato fino alla frenesia del lavoro straordinario che si è affermata sotto l’aggressiva spinta di Reagan per un ritorno degli Stati Uniti ad una bucolica America che lui ricordava nei suo film. Gli scrittori di End Notes, sottolineano come “ciò che crea occupazione è il fallimento del tempo libero. Ciò che crea posti di lavoro e genera profitti è uno stato di occupazione permanente, che è anche essenziale ai fini della valorizzazione. Il lavoro umano diretto rimane centrale nel processo lavorativo; non è un supplemento al potere delle macchine”.

Questa è una delle preoccupazioni al centro delle nuove analisi. Abbiamo ancora bisogno del lavoro umano per generare valore che in cambio può essere accumulato come capitale? O il capitale può fuggire alla sua dipendenza dal fattore umano attraverso un processo di estrema automazione? O, come argomentano gli autori di Inventing the Future, questo programma di “piena automazione” è raggiungibile solo in un ordine sociale post-capitalista e post-lavoro? Dyer-Witheford, profondamente immerso nella ricerca delle dinamiche attuali del capitalismo globale, conclude che, in risposta alle rivolte dei lavoratori, il capitale è sempre più incline all’opzione dell’automazione, alla ricerca di un proficuo futuro senza scontri:

La diffusione del lavoro a basso costo aveva ribaltato la prospettiva di un sua eliminazione per via tecnologica, ma ora questa è ritornata sul tavolo, arricchita di nuove generazioni di robot che emergono dalle guerre dei primi anni del XXI secolo e sempre più diretta non solo contro il lavoro manuale, ma anche alle posizioni intermedie dei colletti bianchi che una volta erano considerate sicure. Con la crescita dei social media – la gran parte dei quali sono arrivati a partire dal 2008 – lo scopo di internet si è rivelato quello di una vasta raccolta di dati algoritmici per codificare, prevedere e persino meccanicizzare le attività di consumo, mentre la finanza post-crisi esibisce una rinnovata determinazione di passare direttamente dal denaro a più denaro attraverso mezzi di trading ad alta frequenza e altre reti, aggirando sia la produzione che il consumo (p.169)… In un’idea futuristica di accumulazione, il capitale imparerà a funzionare non inducendo la popolazione a produrre, come nella fase di accumulazione primitiva, ma estromettendola da essa. Il fattore umano continuerà a fornire le “connessioni consapevoli” richieste dai sistemi cibernetici, ma in un modo sempre meno importante e remunerato. I gruppi che dividono il pianeta in zone ad alto e basso salario continueranno a ruotare e spostarsi dal momento che la richiesta globale di lavoro a basso costo continuerà a persistere. Tuttavia, il lavoro precario, reperibile fintanto che e fino a quando il sistema delle macchine lo richiede, diverrà la norma (p.186).
Una delle premesse marxiste era che la riproduzione del capitale richiede la riproduzione della classe operaia: le relazioni sociali che generano valore devono essere relazioni umane, anche se organizzate in modo inumano. Questo, tuttavia, è il presupposto che la tecnologia ha confutato sin dalle sue origini, insistendo sulla trasportabilità di diversi tipi di “motori informatici” come gli “automi” siano essi “fatti di metallo o di carne”, e che i computer contemporanei cercano di abolire eliminando la fastidiosa “variabile” umana in favore di entità – robot o cyborg – “fisse” e “costanti” nella loro sottomissione al capitale. La teoria dell’eccezionalità rimuove la fiducia umanista che un tale sistema capitalista, attraverso l’annichilimento della base del valore, finirà per distruggere se stesso. Al contrario, porta alla possibilità di creare, in una sempre maggiore iterazione, a un’umanità eccedente in un pianeta devastato adatto solo ad insediamenti di macchine (p.192).

gg2

Beh, è un pò cupo, non trovate? Come ho detto prima, tutti questi scritti si abbeverano a piene mani alla fonte della disperazione. Anche Peter Fleming fa la sua parte in The Mythology of Work. Non crede affatto che l’incessante promozione del lavoro di per sé abbia alcun fondamento nei bisogni materiali.

Il tentativo di persuaderci che una vita di lavoro è inevitabile sia per i bisogni basilari che per l’elevazione morale, è stato da tempo abbandonato. Tutti sanno che lavoriamo ora per tenere a bada le autorità (i padroni di casa, il fisco, le società di carte di credito, le multinazionali, ecc.). Ma comprendiamo anche una sfacciata inutilità del lavoro. E questa percezione di mancanza di senso deve essere strettamente governata, qualcosa che la società neoliberista riesce a fare solo parzialmente. Poiché è palesemente evidente che non vi è abbastanza lavoro in giro, l’apparato statale aziendalizzato teme sia la piena occupazione che la disoccupazione. Inoltre, quelli di noi abbastanza “fortunati” da avere un lavoro sono così insoddisfatti da quanto devono sopportare, che è emersa un’intera industria per gestire queste patologie da lavoro. Lavoriamo non perché lo vogliamo o ci piace, ma perché è diventato un modo di vivere con poche alternative o vie di scampo. L’universalizzazione ideologica è una strategia di governance fondamentale che le istituzioni neoliberiste usano per tenere ritmi frenetici di lavori inutili, avvitandoci su ritmi pericolosi. (p. 22)… Lo scopo del discorso neoliberista è di ricordarci che esso esiste e che non ci sono alternative… Questo è ciò che rende ancora più irrazionale la paura di essere abbondati dai nostri datori di lavoro. L’abbandono è già in corso (alle élite di potere non interessa nulla di noi) e, paradossalmente, ci viene costantemente ricordato al fine di convincerci del contrario (p.48).

La tesi di Dyer-Witheford per cui il capitalismo ora organizza la produzione per espellere i lavoratori anziché tenerli, trova conferme anche nel libro di Fleming.

La preoccupazione di trattenere i lavoratori – come dissuadere i lavoratori dal lasciare l’azienda – è stato ora sostituito dal pensiero di decidere esattamente quando abbandonarli. Sicuramente una vasta letteratura sul tema dell’abbandono (NdT: nel senso di licenziamento) ora informa sulla funzione gestionale nelle imprese, il settore pubblico e una serie di altre istituzioni. Oggigiorno, i datori di lavoro hanno ben pochi problemi a reclutare i lavoratori. Ve ne sono a frotte che fanno la fila fuori dalla porta, in gran parte iper-qualificati e desiderosi di lavorare per salari inferiori a quelli delle generazioni precedenti. Neanche la capacità di impegno e la motivazione costituiscono un problema. I lavoratori sanno bene che un finto entusiasmo, la fiducia in sé e la capacità di farsi in quattro è ciò che si deve fare per evitare l’occhio vigile del capitale. Tuttavia, trattenere i lavoratori è un problema… In senso pratico, la funzione del responsabile delle risorse umane si interessa principalmente dell’usa e getta. Oggigiorno, il problema centrale del capitale è quando e come cedere il proprio “capitale umano”. (p.85)

Laddove Fleming raggiunge il suo massimo, però, è la sua analisi dell’assurdità kafkiana del luogo di lavoro di stampo neoliberista. La retorica insistenza sulla totale messa a disposizione del mercato con cui i fautori del neoliberismo immaginano il mondo, è ampiamente disfunzionale sul posto di lavoro reale. “Se noi realizzassimo effettivamente in ufficio un puro neoliberismo – vale a dire: totale individualismo, nessuna regolamentazione dallo Stato, una competizione senza freni, nessun mutualismo o aperta cooperazione – non si potrebbe fare assolutamente nulla.” Nel sottolineare questo aspetto, Fleming accenna anche a un approccio tattico che talvolta capovolge i rapporti di potere sul posto di lavoro – in questo caso una sorta di “sciopero bianco” in cui nessuno fa quanto propugnato dai presunti valori delle stesse imprese. Verso la fine di questo interessante libro, Fleming ribadisce che il capitalismo non è in grado di riconoscere la propria impotenza sistemica, e che la sua dipendenza dal lavoro umano è il suo tallone di Achille. Qui Fleming si aggrega agli scrittori di End Notes nel ribadire che la desolante prognosi di Dyer-Witheford di un futuro mondo con pochissimo lavoro umano, è essenzialmente impossibile per il capitale.

Fleming, tuttavia, è tutt’altro che trionfalistico nell’affermare le potenzialità rivoluzionarie nonostante le evidenze contrarie. Anche se alla fine ribadisce la vulnerabilità del capitale verso il lavoro, nel corso di gran parte del suo libro egli enfatizza lo stato di reclusione dell’odierno lavoro e delle classi medie in quello che lui chiama l’equazione “Io=Lavoro”. Alla luce di ciò, il lavoro si trasforma in ciò che siamo piuttosto che semplicemente qualcosa che facciamo tra le altre attività della nostra vita. Il lavoro diventa un ineluttabile stile di vita, 24 ore al giorno, 7 giorni su 7.” L’esito orwelliano di questo processo è “la ‘prigione a cielo aperto’ della società neoliberista” in cui “l’ottica svuota il soggetto della storia… Il nuovo apparato visivo che purifica il presente capitalista per tutti (ossia la totalità) sta effettivamente diminuendo le capacità peculiari della nostra memoria proletaria. La ferita, l’umiliazione e l’espropriazione che definisce il passato collettivo, svanisce quando la cultura capitalista diventa iper-visiva. Mai come ora, ci scorrono davanti tante immagini, ma ben poche ne vediamo realmente” (p.73). Oppure, come afferma in un altro passo: “Assistiamo ad una lotta di classe come fosse un brutto film da cui non possiamo fuggire. La democrazia del tardo capitalismo corrisponde all’essere legato ad una sedia e a guardare la prossima offerta di Adam Sandler”. Ahia! La desolazione regna!

Fleming può anche risultare poco arguto nei suoi scritti. Spesso cita Mille piani di Deleuze e Guattari così come i seminari di Michel Foucault. Apprezzo che questi scrittori francesi siano considerati delle importanti analisi per comprendere il modo in cui capitalismo e potere si siano evoluti nel corso dei passati cinquant’anni, ma non sono neanche un grande fan delle loro opere iper dense e inaccessibili. Fleming cerca di evitare il peggio di esse (anche se forse potete considerare alcune delle sue parole sopra menzionate un po’ troppo pesanti). Trovo particolarmente forte la sua citazione di Herbert Marcuse in una breve discussione sul debito e la storia:

… oggigiorno il debito può essere trasformato in colpa solo eliminando una particolare versione della storia. In questo modo, il debito personale non è riferito al passato, ma è sempre co-presente con un infinito “ora”. Il debito neoliberista in particolare dipende dalla libertà del soggetto che non conosce passato ed è perciò pienamente responsabile. Ecco perché la memoria storica dei lavoratori è un pericolo per il progetto capitalista; [come dice Marcuse] “per smettere di soffrire è necessario perdonare quelle forze che hanno causato tale sofferenza – senza tuttavia sconfiggerle” (p.74).

Quest’infinito “ora” è un’idea che è anche al centro della critica situazionista della società dello spettacolo. La cancellazione della storia e della memoria storica è essenziale al mantenimento di questo modo di vivere. Possiamo indulgere in episodiche celebrazioni di versioni attentamente rivisitate di memorie nostalgiche, invocare una patriottica “grandezza”, per esempio, nell’abolizione della schiavitù o nella sconfitta del nazismo. Ma gli ingarbugliati, complicati fatti storici che sono alla base della Guerra civile o della Seconda guerra mondiale vengono sempre rimossi nella fretta di sintetizzare e passare sopra alla barbarie e il genocidio che è al cuore della storia americana. Applicare questa ricorrente tecnica di nascondere le relazioni sociali che producono una montagna di debiti inesigibili (che tuttavia servono per forzare la maggioranza a pagare “volontariamente” le loro tasse e andare a lavoro), è allo stesso modo essenziale per mantenere la legittimità del debito e il potere morale che evita che possa essere messo in discussione.

Ho trascorso diversi anni aiutando nella produzione di Shaping San Francisco, motivato sostanzialmente dal fatto che noi viviamo in una società sempre più amnesica. Shaping San Francisco è parte di un filone critico della storia popolare di questi giorni, che rifiuta la grande narrazione del passato, che cerca di ritrovare i fatti perduti e dimenticati che comprendono le vite quotidiane di svariati milioni di persone anziché i classici resoconti dei grandi uomini, stati, guerre, ecc. Ma Fleming pensa anche al ruolo stesso della storia e, nella sua solida critica all’egemonia dell’ordine neoliberista, mostra come questo impulso verso strutture di pensiero non autoritario, sia stato cooptato dalla stessa egemonia neoliberista.

… l’egemonia si è sempre più appropriata della critica della meta-narrazione così che ora non vi è più una verità, ma solo “punti di vista” e opinioni. Ciò crea spazio per false verità che emergono. La critica ideologica deve pertanto “competere” nel mercato capitalista delle idee insieme con quelle più ridicole. Questo può sembrare essere pluralismo, ma ne è l’esatto opposto. Illustra una definitiva strutturazione dell’indice dominante di base, in modo che le idee che governano le classi siano le sole che alla fine veramente vincono (p.166).

La stessa egemonia neoliberista è sotto il mirino di Nick Srnicek e Alex Williams, gli autori di Inventing the Future: Postcapitalism and a World Without Work. Anche loro avvertono che l’analisi delle meta-narrazioni ha inavvertitamente rinforzato la presa dell’ordine dominante sull’immaginario popolare:

… dopo trent’anni di senno di poi, non si è avuto alcun declino nella fede nella meta-narrazione di per sé, ma piuttosto un ampio disincanto di quella offerta dalla sinistra. L’associazione tra capitalismo e modernizzazione rimane, mentre le nozioni più propriamente progressiste del futuro sono crollate sotto il peso della critica postmoderna e sono state seppellite sotto le macerie sociali del neoliberismo (p.74).
L’egemonia neoliberista ha approfittato delle idee, i desideri e le pulsioni già esistenti all’interno della società, mobilitando e promettendo di soddisfare quelli che potevano rientrare nella sua agenda. La venerazione della libertà individuale, il valore ascritto al duro lavoro, la libertà dalla settimana di lavoro rigida, l’espressione individuale attraverso il lavoro, la fede nella meritocrazia, il rancore verso i politici corrotti, i sindacati e i burocrati – queste convinzioni e desideri esistevano prima del neoliberismo e hanno trovato espressione in esso (p.64).

Come è successo che, da una dinamica e rivoluzionaria ondata di movimenti sociali di una generazione fa, siamo arrivati a un mondo che ha completamente catturato quelle aspirazioni libertarie e più o meno le ha trasformate ora in catene? Srnicek e Williams (d’ora in poi: S&W) danno la colpa a quella che loro chiamano “folk politics. Frustrati da quasi un quarto di secolo di politica anti-autoritaria che ha insistito sull’orizzontalismo, la mancanza di leader, adocrazie di vario tipo e una generale avversione alle istituzioni, S&W vogliono ridare vita alla sinistra recuperando la modernizzazione e il progresso tecnologico, e insistendo sul bisogno di una strategia politica capace di confrontarsi con il capitalismo globale. Essi mostrano come le strutture e le tattiche della vita politica nel corso degli ultimi venticinque anni, non ha solo fallito nel cercare di superare il capitalismo globale, ma essenzialmente ha finito per rafforzare alcuni dei più profondi cambiamenti nel modo di pensare, che hanno accompagnato l’ascesa dell’epoca neoliberista.

… la folk politics riduce la politica ad una battaglia etica ed individuale. Vi è la tendenza talvolta a immaginare che noi abbiamo solo bisogno di un capitalismo “buono” o un capitalismo “responsabile”. Allo stesso tempo, l’imperativo “make it local” porta la folk politics a feticizzare i risultati immediati e la tangibile apparenza delle azioni. Ad esempio, viene sbandierato come un successo il fatto di rimandare un attacco delle imprese all’ambiente – anche se le imprese semplicemente si limitano ad aspettare che cali l’attenzione pubblica per ritornare di nuovo all’attacco… Senza la necessaria astrazione del pensiero strategico, le tattiche sono sostanzialmente delle pose effimere. Infine, la negazione della complessità, combacia con la causa neoliberista del mercato. Uno dei principali argomenti contro la pianificazione è che l’economia è semplicemente troppo complessa per essere guidata. L’unica alternativa è pertanto quella di lasciare la distribuzione delle risorse al mercato e rigettare ogni tentativo di guidarlo razionalmente. Considerandole in questo modo, le folk politics appaiono come un tentativo di rendere il capitalismo globale abbastanza piccolo da essere immaginabile – e allo stesso tempo, di articolare come agire su questa immagine ristretta del capitalismo (p.15).

S&W riconoscono che tutte le politiche hanno una base locale e che quella che loro chiamano “folk politics” è necessariamente parte di qualsiasi progetto politico. Ma loro gli attribuiscono la colpa di credere che ciò che è “transitorio, ridotto, diretto e specifico” sia adeguato all’impegno politico.

… la folk politics privilegia il locale come fonte di autenticità (come i prodotti a chilometro zero e le valute locali); solitamente predilige il piccolo al grande (come la venerazione per le piccole comunità e le imprese locali); favorisce progetti che non sono realizzabili fuori dalle piccole comunità (ad esempio, le assemblee generali e la democrazia diretta); e spesso rifiuta progetti egemonici, preferendo ritirarsi anziché costruire una più ampia contro-egemonia. Allo stesso modo, la folk politics preferisce che le azioni siano prese dai partecipanti stessi – in questa enfasi per l’azione diretta, per esempio – e vede i processi decisionali come un qualcosa che coinvolga tutti anziché solo da rappresentanti. Il problema di scala ed estensione sono o ignorati o adattati al pensiero della folk politics (p.11).

Da quando ho pubblicato Nowtopia otto anni fa (in Italia edito da Shake nel 2009 ndr), ho focalizzato la mia attenzione sui limiti del locale, dall’incapacità di andare a fondo nell’affrontare i complessi sistemi e la vita urbana oltre gli stereotipi e il sogno di una spontanea autonomia organizzativa. I progetti su cui mi sono concentrato in Nowtopia, come le ciclofficine, i orti condivisi e i progetti di software libero, erano insidiosi. Come ho sottolineato nel libro, fino a quel momento (e anche ora, del resto), se qualcuno di questi progetti temporanei è sopravvissuto abbastanza a lungo, è stato sempre sotto forma di piccola impresa o di associazione non-profit. È impossibile evitare la circostante società capitalista laddove si rimane attivi all’interno del mondo del commercio, della mercificazione, del credito e del contante. Forse l’esempio più ovvio è come il festival Burning Man sia diventato un evento annuale super ricco, gestito da imprese no-profit che ogni anno spendono e incassano milioni.

È a questa situazione che S&W cercano di rispondere. Loro affermano che la folk politics attrae la partecipazione entuasistica per via “del collasso dei modelli tradizionali di organizzazione della sinistra, della sussunzione dei partiti social-democratici in un modello di egemonia solo un po’ meno neoliberista, e di un diffuso senso di impotenza originato dall’insipida politica di partito contemporanea. In un mondo in cui i problemi più seri che dobbiamo affrontare sembrano irrissolvibilmente complessi, la folk politics presenta un modo seducente di prefigurare nel presente un futuro egualitario” (p.22).
Ma come ha sottolineato Jodi Dean, “a Goldman Sachs non importa se tu hai le galline in giardino!”. Riorganizzare la nostra produzione di vita, non solo a casa, nel vicinato, nella piccola impresa o persino nel proprio comune, ma anche globalmente, è un processo estremamente complicato. Ovviamente, io sono a favore dei sistemi di relazioni dal basso, autonomi e confederati, tra le diverse comunità nel mondo, basati sulla libera cooperazione e associazione. Ma in termini pratici, come realizzare un mondo del genere? Poco di quello che esiste è in grado di preparare la maggior parte della gente a quel tipo di vita, basata sull’egualitarismo e la condivisione delle risorse e del benessere, un mondo con molto meno lavoro ed una vita migliore.

Lasciando da parte queste grandiose questioni globali, S&W sottolineano acutamente che l’azione politica collettiva “più spesso di quanto non si creda, è portata avanti tramite una complessa divisione del lavoro, catene mediate di coinvolgimento e strutture istituzionali astratte. Pertanto, l’aspetto sociale della libertà artificiale non è un ritorno a un qualche desiderio umano per una socialità diretta e una semplice cooperazione, ma invece un invito ad un’autodeterminazione collettiva, complessa e mediata” (p.81).

Questo accenno alla “libertà artificiale” è dove il loro futuro si discosta dal mio. Io concordo con S & W che dovremmo richiede una “piena disoccupazione” e che “la sinistra del XXI secolo deve cercare di combattere la centralità del lavoro nella vita contemporanea” (p.126), e che “il vero potenziale trasformativo di gran parte delle nostre tecnologie e della ricerca scientifica, rimane inesplorato” (p.152). Ma nel loro abbracciare ciò che viene chiamata agenda “accelerazionista” basata sulla “libertà artificiale”, loro iniziano a fare il verso ai primi futuristi italiani – e neanche lo fanno così bene! È difficile prendere seriamente il loro entusiasmo per i discorsi tecnologici, vivendo nell’affascinante Bay Area di San Francisco. Loro invocano “uno spirito che rifiuta di accettare qualsiasi barriera come un qualcosa di naturale e inevitabile. La crescita dei cyborg, la vita artificiale, la biologia artificiale e la riproduzione in laboratorio, sono tutti esempi di questa elaborazione (il corsivo è aggiunto, p.82).

Il capitalismo, con le sue pretese di liberazione e universalità, ha definitivamente controllato queste forze in un infinito ciclo di accumulazione, fossilizzando i reali potenziali di umanità e costringendo lo sviluppo tecnologico a una serie di marginali e banali innovazioni. Il capitalismo frenetico lo richiede, anche se non andiamo da nessuna parte. Al contrario, dovremmo costruire un mondo in cui possiamo ripartire da una nostra inerzia (p.181).

gg

La mia personale visione di una vita libera e post-capitalista, con minore lavoro, è basata su una connessione più intelligente con i sistemi naturali, non nel vedere questi sistemi come delle barriere od ostacoli. I cicli della natura sono il contesto all’interno del quale noi viviamo. L’entusiasmo espresso da S&W per la vita artificiale, sembra una reazione impulsiva agli eccessi del localismo hippie, comprensibile ma non esattamente razionale. Le questioni fondamentali come quella dell’acqua, il terreno e il cibo sono già severamente compromesse dagli interventi umani e dalle manipolazioni chimiche (l’assurdo impianto idrico della California, l’adozione da parte dell’agrobusiness di cibo geneticamente modificato e gli orti intrisi chimicamente, sono degli ovvi esempi). Le soluzioni non possono essere ricercate nell’incremento dell’automazione e delle realtà artificiali o con un’ulteriore accelerazione dei nostri ritmi quotidiani, ma piuttosto attraverso un generale rallentamento, riorientando ad esempio l’agricoltura verso sistemi ben sviluppati di produzione fortemente ecologica, biodinamica e attraverso la biodiversità. È ancora aperta la questione se possiamo integrare più pienamente la produzione di cibo con la vita di città, o se è possibile creare un nuovo ibrido tra i due. Ovviamente molte specifiche tecnologie sono utili per esplorare e perfezionare questo approccio, dagli aratri e i sensori d’acqua ai computer e i satelliti. Ma la mia visione ideale di modernità non mi fa immaginare di andare più veloce e più lontano nel cul-de-sac in cui il capitalismo ci ha già messi. Nick Dyer-Witheford la pensa nello stesso modo quando nel suo Cyber-Proletariat conclude con l’ammonimento verso le fantasie accelerazioniste della piena automazione:

Né la fascinazione accelerazionista né il rifiuto anarchico sembrano adeguati alle sfide poste all’immaginario comunista dalla cibernetica. Il comunismo non è un’accelerazione delle tendenze del capitale, ma piuttosto è uno stop, un tirare il “freno d’emergenza”. È una sterzata, una partenza verso una diversa direzione da quella del capitale… Di fronte all’assalto cibernetico del capitale, è necessario non solo difendere le attività più fondamentali della riproduzione del proletariato – parti sicuri, le attività di cura, l’accesso a cibo e acqua, un ambiente sicuro, la collettività e l’educazione – ma anche affermare che queste sono questioni legate alla corporeità, alla carne, e che, per i comunisti, queste non possono essere indifferentemente trasferibili all’automa di metallo (o silicone), come vorrebbe la cibernetica e il capitale (p. 196-97).

Udite, udite! Dopo una disperata analisi sull’automazione della vita, Dyer-Witheford ritorna ad una fondamentale aspirazione umanista. Sono sicuro che non avrebbe contestato l’assunto di Srinecek e Williams per cui “un coinvolgimento con la totalità del potere e del capitale è inevitabile e pertanto non dovremmo illuderci sulle difficoltà nell’affrontare un simile progetto. Se non è possibile un pieno cambiamento trasformativo nell’immediato, i nostri sforzi devono essere diretti verso l’apertura di spazi di possibilità che esistono e fare affidamento su migliori condizioni politiche nel tempo”. E questo ci riporta a Nowtopia e a quel tipo di impegni che possono essere affrontati nel qui ed ora (solo per soccombere nel tempo alla logica ferrea del capitalismo).

S&W centrano il loro “programma” sull’innovazione tecnologica e la piena automazione, la riduzione della settimana lavorativa, la disposizione di un reddito di base e un assalto frontale all’etica del lavoro. Ma sostengono anche che, nel passaggio verso questo programma più radicale, “un governo previdente dovrebbe supportare quei progetti orientati verso quest’obiettivo, come le economie basate sulla de-carbonizzazione, il lavoro pienamente automatizzato, l’espansione di energie rinnovabili a buon mercato, la ricerca di biologia artificiale, lo sviluppo di una medicina economicamente accessibile, il finanziamento di progetti di esplorazione dello spazio e la costruzione dell’intelligenza artificiale. La sfida è di sviluppare meccanismi istituzionali che possano consentire un controllo dal basso nella direzione della creazione tecnologica” (p.147). È qui che la loro visione glissa, come fanno molte altre ipotesi superficiali che loro avevano precedentemente stigmatizzato come “folk politics”. L’idea che sia realizzabile un’energia rinnovabile a buon mercato e che possa essere superata la termodinamica, che la biologia artificiale non danneggi seriamente la rete di connessione della vita, che l’esplorazione dello spazio sia una buona idea o che l’intelligenza artificiale sia possibile o desiderabile, sono tutti concetti discutibili. E la facile condizione circa i metodi di sviluppo per assicurare un controllo dal basso sullo sviluppo della tecnologia, non risponde ai problemi. Sorvola totalmente su quanto confusi e complicati dovrebbero essere dei processi veramente democratici per valutare e supportare i passaggi a specifiche tecnologie.

Ma sono contento che questi scritti, ciascuno a modo suo, abbiano iniziato a parlare del tema della riduzione del lavoro. Per troppo tempo siamo andati avanti senza prenderlo seriamente in considerazione. Come possiamo riorganizzare la nostra vita materiale in modo tale che ciascuno possa avere una bella vita e i propri bisogni soddisfatti? Come possiamo bilanciare la tecnologia e l’attività umana in una danza che riduca il lavoro il più possibile, mentre innalziamo la qualità di vita di coloro che lavorano, coloro che vivono le conseguenze sociali ed ecologiche di quel processo lavorativo e il circostante mondo naturale che cresce – o meno – a seconda di come affrontiamo la questione? Talvolta sembra che tali interrogativi siano risolvibili e già a portata di mano. In altri momenti sembrano così assurdi e utopistici che perdo le speranze. Ma come ho detto all’inizio, la disperazione probabilmente è una sana risposta alla cupa realtà. Detto questo, ogni giorno c’è tanta bellezza, grande creatività e incredibile talenti e stimoli intorno a noi. Immaginiamoci di intraprendere un processo di reinvenzione della nostra vita basata su queste capacità e realtà, piuttosto che farci costringere dalle claustrofobiche possibilità che ci presenta questo mondo violento fatto di scelte limitate.

1976894_789402377745676_379278703_n* Chris Carlsson, scrittore e artista (foto) da sempre nei movimenti sociali statunitensi, è stato tra i promotori della prima storica Critical mass a San Francisco. Autore, tra le altre cose, di «Nowutopia» (Shake edizioni) e, più recentemente, di «Critical mass. Noi siamo il traffico» (Memori), invia periodicamente i suoi articoli, molti dei quali raccolti sul blog nowtopians.com, a Comune: il saggio qui pubblicato (titolo originale Start Talks Now on Work Reduction!) è stato tradotto per Comune da Virginia Benvenuti.

Fonte

Share Button

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.